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Nobiltà e Civiltà

Prefazione de La congiura Fornaciari (capitolo 7, segue dal capitolo 6)

Chi è questo e chi è quello. Una volta si faceva presto a presentarli tutti: i Baviera, gli Arsilli, gli Augusti, i Marchetti, i Mastai Ferretti, i Beliardi, i Benedetti, erano sempre gli stessi, una ventina di famiglie, non di più, la nobiltà locale; ma da qualche tempo figurano altri nomi che fa specie sentire inframmezzati ai loro. C’è una strana situazione, a quanto pare, di affaristi che vogliono nobilitarsi e nobili di seconda e terza fila che vorrebbero avanzare; ma al vecchio patriziato piace poco vedersi affiancato, scavalcato, o addirittura estromesso da questi rincalzi. Io li sento tutti i giorni i miei signori che mugugnano contro i pidocchi che tentano di scalare il loro ceto: “Non arrivo a capire,” diceva l’altro giorno uno di loro a proposito di certe aggregazioni, “come si può sovvertire l’ordine delle cose e arrischiare, con una novità non necessaria, anzi manifestamente dannosa, la decadenza di ogni privata fortuna”.

Del resto il tempo per sparlare non gli manca perché, quando non sono impegnati dai nobili gesti che loro competono, cioè quasi mai, i vecchi aristocratici sono come dèi oziosi, campano di rendita, e la loro iniziativa non va oltre al fornire cereali agli ebrei per compensare gli interessi di prestiti già attivati e all’affittare locali e magazzini ai forestieri che vengono alla fiera; ma questi altri che non hanno nascita o l’hanno meno illustre, i Francesco Comanelli e i Giovanni Coraucci che nel libro si incrociano con Fornaciari, si danno da fare, e comprano, e vendono, e mettono le mani sugli appalti e gestiscono gabelle in concessione, e avviano fabbriche e opifici, fanno girare i soldi e aumentano ogni giorno il capitale.

A ben guardare, l’ampliazione era stata un colpo d’ala della nostra nobiltà e in certo modo un prendere il toro per le corna: avevano provato a rafforzare il loro ceto favorendo l’iniezione di altra nobiltà proveniente dall’esterno; ma non hanno potuto impedire che emergessero questi faccendoni; e in modo assai vistoso in verità, se accanto al palazzo di un conte, di un marchese, ormai si vede crescere la residenza di un mastro muratore, ossia di uno che, per quanto stipendiato come responsabile dell’edilizia pubblica, non è mai entrato nel Consiglio Generale e ragionevolmente non ci entrerà mai. Piuttosto gli impongono un freno, in modo che non costruisca un palazzo più grande del loro: avete visto che perfino a un Monti non hanno permesso di fare un palazzo più grande di quello che stavano tirando su i Mastai Ferretti.

E’ pur vero che non è affatto facile per questi borghesi impiantarsi a Sinigaglia anche solo per lavoro, perché ogni loro progetto viene sempre respinto dal Consiglio; tuttavia i tempi incalzano e le stesse riforme doganali varate da Pio VI finiscono per favorirli; ecco allora che sorgono le prime industrie: di mattoni, di gesso, di cappelli, di stoviglie, la nuova cereria e il cantiere dello squero per le imbarcazioni; ed ecco che dietro a loro crescono gli artigiani: canapini, orefici, fabbri, calzolai, falegnami…

Poi dal solo guadagnare a voler comandare il passo è breve, tanto più che molti si sentono capaci di farlo molto meglio dei vecchi signori. “La convivenza civile,” ragionano quelli più convinti, “nasce dalla collaborazione e dal comune consenso di ciascuna parte e di ciascun ceto” e non dalla prevalenza di uno su tutti.

D’altra parte le loro richieste sarebbero legittime, poiché lo Statuto, a leggerlo bene, non dice esattamente che bisogna essere nobili per governare: vuole solo che i consiglieri, di età non inferiore ai venticinque anni, siano persone oneste, gravi, devote a Nostro Signore e allo Stato, domiciliate a Sinigaglia; e se pretende che abbiano anche un certo censo è solo perché la maggior parte della popolazione si trova in precarie condizioni non solo economiche, ma anche, per riflesso, culturali.

Come faremo allora a difenderci dall’arrembaggio dei nuovi venuti? – si domandano i nobili ogni giorno.

Facendogli guerra; perché cos’altro sono queste baruffe infinite per essere aggregati al Consiglio se non vere battaglie tra chi è nobile di antica prosapia e chi lo è di meno o non lo è per niente?

E poi con postille alle regole che bloccano i nuovi aggregati al terzo posto del magistrato e non permettono loro di scalare il primo.

E poi barando. Per anni hanno violato le regole aggregando anche persone che non erano residenti di Sinigaglia; e, in barba allo Statuto, hanno iscritto perfino bambini di cinque anni pur di non lasciare lo scranno a qualcun altro.

E, se non fa nemmeno quello, spargendo discredito sui nuovi candidati. I quali non vanno mai bene: chi capisce qualcosa non ha beni al sole e chi ha beni ha sempre poco cervello.
“Quel Reppi che cos’ha di suo? Non possiede se non una piccola casa, e due miserabili some di terreno”.
“E quel Roberti? Ha la casa dove vive, e una parte la dà pure in affitto, e quel poco di dote della moglie…”
“E Carnevali? E’ di pessima estrazione, dal castello della Tomba. Ha fatto il tamburino e la sorella gestisce una pubblica bettola.”
“E quell’altro Ramponi? Quantunque benestante, nulla di meno è persona idiota e di nessuna esperienza, tolto forse che nel genere di qualche mercatura e senseria… e ha uno zio calzolaio a Cagli.”
“E che dire di Giuseppe Solazzi? E’ parimenti idiota al segno maggiore, di modo che non è capace di fare un discorso senza avere l’assistenza di un compagno. E’ contadino, nato e vissuto nella villa di San Silvestro.”
Inutile negare: tra i nobili si è ingenerata una ripulsa orgogliosa alla difesa del ceto insidiato.

Per contro è innegabile che fanno fatica a far numero nelle sedute del loro Consiglio, e che è spesso necessario sostituire gli elementi mancanti con altri candidati. Quest’anno ballottati per il Magistrato abbiamo avuto, oltre ai soliti Baviera, Beliardi, Benedetti, un Filippo Scacchi e un Francesco Fantozzi, relativamente nuovi; abbiamo avuto un Giuseppe Solazzi: non lui ma il nipote di quello che avevano bollato come “contadino”. Vedete che qualcosa si va pur muovendo; ma con la martinicchia tirata perché tutto resti fermo come è sempre stato.

Sarebbe la politica, questa, e io che sono donna ci capisco poco; però vi assicuro c’è gente qui che a mezza bocca dice che se i nobili non aprono le porte qualcuno va a finire che le sfonda. (continua…)

(Prefazione a La congiura Fornaciari, capitolo 7, segue dal capitolo 6, continua nel capitolo 8) 

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