Gran Guignol di Natale
di Eugenio Giudici
Il capocuoco Romeo e suor Maria della Cucina avevano una gran passione per i gatti.
Lui era un uomo alto, visto da dietro sembrava magro, di profilo faceva la lettera P e aveva l’aria gioviale come ci si aspetta da chi fa quel mestiere.
La suora che lavorava con lui era bassa, larga e con l’espressione un tantino arcigna. Era lei il capo della brigata e sorvegliava il lavoro di aiuti e sguattere che provvedevano al cibo di tutto l’ospedale, dai pazienti alla mense nel seminterrato. Quella dei dottori, l’altra delle infermiere a convitto e quella del personale.
La passione per i gatti del capocuoco Romeo si estrinsecava nel riservare loro i migliori avanzi di cucina, che separava con cura amorevolmente professionale dal resto destinato ai maiali. Il sistema di riciclo ecologico in uso negli anni cinquanta.
Suor Maria della Cucina lo lasciava fare perché amava i gatti in un altro modo.
Ce n’erano diversi, randagi e forse no, che frequentavano l’area di sgombero e servizio alle spalle dell’ospedale. Attirati dalle generose cure del capocuoco Romeo, non disdegnavano nemmeno le scorte destinate ai maiali.
Suor Maria osservava, giudicava i gatti e aspettava il far dell’inverno.
Quando riteneva giusto il momento, si accordava col Torretta giardiniere e gli forniva delle salacche.
I gatti non sanno resistere alle salacche. Ne percepiscono le esalazioni da lontano e ne sono attratti inesorabilmente. Altro che piffero magico, se vai in giro con una salacca tutti i gatti ti vengono appresso.
Suor Maria della Cucina lo sapeva bene e ne approvvigionava giustificando l’acquisto per le mense dipendenti, non certo per le bianche diete dei malati.
I gatti lei li amava arrosto, a volte in salmì e ne faceva il centro di pranzi speciali che teneva due o tre volte d’inverno a cominciare da quello di Natale. Erano agapi riservate di cui si sapeva e non si sapeva e a cui partecipava una ristretta cerchia di privilegiati: il capo-infermiere, il capo-operaio della manutenzione, il lettighiere, il giardiniere e pochi altri.
Suor Maria della Cucina non vi prendeva parte, le monache consumavano i pasti tra loro, ma organizzava il tutto e teneva per sé una buona porzione di quella prelibatezza per gustarsela di nascosto e in santa pace.
Passo primo acchiappare qualche bel gattone.
A questo provvedeva il Torretta giardiniere che disponeva la salacca in una solida trappola di legno con lo sportello a coulisse che piombava giù lungo guide ben ingrassate.
Tutte le mattine lui l’interrogava con lo sguardo, infatti sapeva che Suor Maria della Cucina si levava presto e subito andava a controllare se c’era ciccia nella trappola. Infatti, come ho sentito anni dopo affermare da un famoso allenatore di calcio, non dire gatto se non l’hai nel sacco.
Il sacco in questione era doppio, dato che gli artigli del gattone infuriato passavano attraverso la juta e lasciavano brutti segni. Il cacciatore alla fine aveva ragione del poveretto che veniva scuoiato e ripulito di quel che non si cucina.
Passo secondo far frollare la carne.
Qui sorgeva un problema, se la preparazione si poteva tener nascosta scegliendo il momento, la frollatura richiedeva l’uso della cella frigorifera per lungo tempo e se il capocuoco Romeo se ne fosse accorto avrebbe fatto il diavolo a quattro.
Suor Maria della Cucina ne temeva l’ira perché aveva spesso in mano un coltellaccio affilatissimo e in quel caso avrebbe potuto perdere il ben dell’intelletto e, invece di tagliare verdure alla julienne, avrebbe potuto ridurla a fettine ordinate e sottilissime.
Magari non tutta, anche solo qualche preziosa porzione di lei.
Appendeva quindi la sua cacciagione come conigli e la nascondeva dietro capretti e quarti di bue tornando con una certa frequenza a controllarne frollatura e celamento.
Quel novembre sembrò che i gatti avessero fatto tesoro di passate esperienze e non cadevano in trappola.
La buona suora cominciava ad essere preoccupata e a disagio perché, già dall’inizio dell’impresa, avvertiva un effetto Pavlov che voleva la sua soddisfazione e la visita mattutina alla trappola lo alimentava.
Raddoppiò le salacche.
Ma niente, i gatti le ignoravano. Oh disdetta!
Finché, un bel mattino di nebbia, trovò che lo sportello a coulisse era calato giù facendo preda. Col cuor contento e un sospirone di sollievo, suor Maria della Cucina chiamò il giardiniere che si armasse di randello e sacchi di juta che c’era da fare.
Prelevata la trappola e spostatala nel luogo adatto, il Torretta giardiniere cominciò a scuotere la testa. Qualcosa c’era dentro, ma non sembrava una gran preda e nemmeno così agitata. A ciò andava aggiunto che, cosa insolita, ne usciva un miagolìo e non pareva di rabbia bensì una richiesta di soccorso.
Suor Maria della Cucina usò toni aspri e sbrigativi per dirgli che non facesse il fifone, mettesse il gatto nel sacco e alla svelta, che non voleva essere sorpresa in quella bisogna. C’era già troppa gente in giro e i curiosi non mancano mai.
Disponendo il sacco, il giardiniere continuava a tentennare il capo, la trappola nascondeva la preda alla vista e il miagolìo si era fatto sì più vibrato, però aveva perso il lamentoso e sembrava quasi un ringraziamento.
«Non è un gatto!» Sentenziò il Torretta giardiniere. «È un micio. Un micio piccolino!»
Lasciò perdere il sacco di juta e sollevò un poco lo sportello. Piano e incerto sbucò fuori il musetto di un sorianello che timidamente prendeva la via della libertà .
Fece miao e non scappò, lasciò che il Torretta giardiniere lo prendesse in braccio e gli strusciò il capino contro il petto.
A quel punto l’uomo lo passò delicatamente alla suora che non se l’aspettava proprio una cosa simile. Se la vedesse un po’ lei.
Il gattino parve trovarsi bene su quel petto e, appena suor Maria della Cucina chinò il capo per guardarselo meglio, le diede una leccatina sul mento. Poi un’altra.
Suor Maria perse l’aria arcigna e divenne Suor Maria del Micio.
Addio al terzo passo.
Quali vie segua la redenzione è un mistero, di fatto non ci furono più agapi segrete nel seminterrato dell’ospedale e un solo gatto, che non abbandonò più le lunghe e bianche socche della sua protettrice, fu ammesso in quei corridoi.
***
Eugenio Giudici è nato nel 1950 e vive a Milano. È laureato in architettura, ha lavorato per tredici anni in ambito pubblicitario come art e copy, direttore creativo e amministratore delegato. Successivamente è passato al mondo della moda e dell’abbigliamento nel settore marketing, produzione, direzione industriale in Italia, Cina e Germania. Infine ha deciso di chiudere con tutto per dedicarsi a quello che da sempre voleva fare: affrontare la sfida di raccontare e di scrivere. Con la raccolta di racconti Piccole storie è stato finalista al Premio Calvino nel 2012. Ha pubblicato i romanzi L’ultimo galeone (Castelvecchi, 2013) e Anna Senzamore (Eclissi Editrice, 2016)
non lo sapevo,
allora in queste feste proverò a vedere…
grazie per la segnalazione.
Auguri…
dario.