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Rileggendo “Le campane di Bicêtre” di George Simenon

“Le campane di Bicêtre” di Georges Simenon (ultima edizione Adelphi, 2009)

di Alessandro Cartoni

Georges SimenonSi sa, Simenon non è stato solo il magistrale padre di Maigret, ma anche un narratore a tutto tondo capace di fornire prove formidabili di quella che oggi si chiamerebbe la narrativa mainstream. Mi ha sempre colpito il romanzo “Le campane di Bicêtre”, tant’è che solo per un altro romanzo nutro questa fedeltà tirannica che mi porta a doverlo rileggere in certi periodi della vita ed è “Lo straniero” di Camus. Non è un caso se tra l’uno e l’altro si rivelino analogie di temi e di atmosfere. La vicenda de “Le campane di Bicêtre” è talmente esile da essere quasi invisibile, ed è forse il suo fascino più grande: René Maugras importante direttore di un famoso quotidiano parigino durante una cena con amici, nel momento della minzione, cade colpito da una emiplegia che rischia di ucciderlo. Il resto della narrazione null’altro è se non il racconto dall’interno del difficile recupero del protagonista che quasi paralizzato torna a muoversi, parlare e camminare. In questa vicenda in effetti non ci sarebbe nulla di romanzesco se Maugras non scoprisse che questa sua condizione di minorità ed emarginazione non è la peggiore del mondo ed in fondo gli piace. Nonostante i tentativi dei suoi amici e parenti di riportarlo ai suoi obblighi sociali e professionali, Maugras scopre nel suo isolamento una condizione di lucida libertà e sogno, attraverso la quale può compiere finalmente un’analisi impietosa della sua esistenza e di quella della comunità che lo circonda.

Ma no è molto più semplice! Il punto è che lui ha superato una barriera invisibile e adesso si trova in un altro universo

Sostenuto dalla sollecitudine di due infermiere, la signorina Blanche e la giovane Joséfa, una delle quali lo costudisce e l’altra lo aiuta nella ginnastica riabilitativa, il malato torna a ricapitolare la sua vita, il perché del suo successo, le mete che si è dato negli anni, le amicizie, le relazioni con l’alta borghesia parigina in una sorta di decostruzione interiore che svela in modo inclemente l’ipocrisia e la malafede che circondano il suo mondo. Nel lucido deserto della paralisi, dunque, si paralizza anche il consenso al mondo: tutto diventa problematico, lo scandaglio interiore raggiunge i ricordi, le stagioni andate, i momenti di decisione esistenziale, l’amore, il confronto con gli altri colleghi, condannati dall’imprevisto.

lecampanedibicetreLa malattia, come in molti grandi romanzi contemporanei, e varrà qui il richiamo a “La Montagna incantata” di Mann o a “La Coscienza di Zeno” di Svevo, sospendendo il normale sviluppo della salute biologica diventa lo strumento di un riconquistato senso di sé. Lungi dall’impoverire l’essere, lo rafforza evidenziando al contrario l’intrinseca debolezza o malattia del corpo sano, pronto a rispondere all’eteronomia dell’esterno. Per questo il rifiuto di collaborare di Maugras è anche il desiderio di vedere fino in fondo al nulla che tutti ci costituisce.

E lui stesso non ha cercato per tutta la vita di sfuggire a qualcosa?

Maugras si chiede finalmente se è soddisfatto della sua vita e scopre che non lo è, che la sua immagine sociale, costruita con pervicacia, non corrisponde al suo io più autentico. Quando la signorina Blanche gli regalerà un diario per spingerlo a scrivere e a esercitarsi, egli comincerà a segnarvi delle parole singole, con mano tremante, piccoli sgorbi che portano con sé, come relitti, il senso profondo della vita e delle sue omissioni.

Alla fine l’agognato recupero arriva, Maugras riesce sempre meglio a stare in piedi, il suo stupore di allettato viene meno, sembra quasi che il risucchio della vita possa trascinarlo con sé. Dovrà allora prender coscienza di quello che ha visto da moribondo: l’alcolismo doloroso di sua moglie Lina, le manovre subdole del suo braccio destro, l’insipienza degli incontri al Grand Véfour, la pochezza della vita reale. Tuttavia una domanda cruciale lo attraverserà come una faglia feconda.

Sarà ancora capace? Di vivere come gli altri, intende. Perché non è più del tutto uguale a loro e non tornerà mai più ad esserlo

 

Ringraziamo l’amico Alessandro Cartoni per questa corrispondenza.

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