Daniele Garbuglia, “La vita privata” (Edizioni Casagrande, 2016, pp. 104, euro 14)
Si ha una strana sensazione aprendo La vita privata di Daniele Garbuglia. Quella di entrare nella camera da letto del kafkiano Gregor Samsa. Poi ci si rende conto che la metamorfosi del protagonista, di cui l’autore ha l’accortezza di non fornire il nome, prelude a qualcos’altro. Egli infatti, privato del suo sembiante, non perde, anzi acquista la capacità di penetrare con il suo sguardo la realtà . Di qui il viaggio, quello di un uomo dell’età di mezzo, scandito nei quattro momenti di una giornata, pseudo-dantesco (forse anch’egli è uno scrittore, come sembra alludere il suo passaggio purgatoriale fra le fiamme), tutto volto a cogliere le epifanie del reale e ad introiettarle nella propria vita “privata”, verso una fine, però, senza alcuna speranza palingenetica. Il pregio del racconto-apologo di Garbuglia è quello di calare quest’esperienza surreale nel nostro paesaggio postindustriale. Realtà sognata, o, se preferite, incubo reale.
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