Aldo Cazzullo e i misteri di Alba
di Giacomo Verri
Si prende un piacere dritto e breve nel leggere, magari in un dopopasto autunnale con la fosforescenza delle foglie ancora aderenti ai rami, il nuovo libro di Aldo Cazzullo, La mia anima è ovunque tu sia (Mondadori), il primo suo romanzo. Sì perché Cazzullo, di patria albese, classe 1966, è avanti a tutto un giornalista di punta, per anni a «La Stampa» torinese e, dal 2003, al «Corriere della sera», chiamato da Stefano Folli che lo volle come inviato speciale e come editorialista.
Il romanzo sottotitola così: un delitto, un tesoro, una guerra, un amore. Risulta subito chiaro che ci sono tutti gli elementi per fare il libro succoso e intrigante; e infatti quella che abbiamo di fronte è una vicenda che, sullo sfondo del noir, percorre sessantasei anni di storia italiana (in quel di Alba), non facendosi tuttavia romanzo storico, ma piuttosto rispolverando gli ingredienti più efficaci della narrazione a effetto. La trama è fondamentale, perché con essa si infittisce il mistero. Si incipita con un morto importante, il cui cadavere è rinvenuto il 25 aprile 2011 in un bosco delle Langhe: si tratta di Domenico Moresco, ex partigiano rosso, celebre in Alba per essere diventato poi, nel dopoguerra, un grande industriale del vino, di un vino, tra l’altro, ‘aristocratico’, riservato ai cultori della vite. La sua storia viene svelata al lettore pian piano, e non solo grazie alle indagini del commissario di polizia, ma anche a quelle svolte, in privato, da Sylvie, detective pepata e maliziosa, ingaggiata da Antonio Tibaldi, magnate della Tibaldi vini, azienda concorrente a quella del vecchio partigiano, anzi di maggior potere economico, essendo le bottiglie di Tibaldi conosciute in tutto il mondo, ancorché di qualità inferiore a quelle di Moresco: “il bianco Tibaldi apriva la carta dei vini dei ristoranti cinesi; lo chardonnay di Moresco era il preferito dai potenti di Shangai. La barbera Tibaldi era un affare. Il barbaresco Moresco era un mitoâ€.
I fili cronologici, davvero ben intrecciati, sono tre: uno, s’è detto, ricama la vicenda presente, gli altri due servono a dar luce al primo, facendo affiorare importanti indizi direttamente dal passato; così, accanto ai capitoli (tutti brevi, tutti all’incirca di tre o quattro pagine) che narrano i giorni, intorno alla Pasqua del 2011, in cui viene ritrovato il cadavere di Moresco, ve ne sono altri collocati nell’aprile del 1945 e altri ancora nel novembre-dicembre del 1963. Prelievi cronologici fondamentali per la storia di Alba: nell’aprile del 1945 arriva in città il tesoro della Quarta Armata, quella che fu di stanza in Provenza, comandata dal generale Vercellino, e che poi fu sciolta nel settembre del ’44. Di quel tesoro si fantastica e si continua a fantasticare: e qui, nel romanzo, se ne dà conto. E poi c’è il 1963: protagonista dei capitoli che portano quella data è uno scrittore di fama nazionale, Amilcare Braida, impiegato nella Tibaldi vini, uno che si è messo in testa di raccontare la storia di quel tesoro. Amilcare era il nome del padre di Beppe Fenoglio, Braida il cognome della disperata famiglia della Malora (tutto ciò viene tra l’altro chiarito in una nota a fine di volume da Cazzullo stesso). Amilcare Braida è dunque Beppe, che muore nel dicembre del ’63 (nella realtà Fenoglio ci saluta il 18 febbraio di quell’anno) e non fa in tempo a raccontare la storia del tesoro. Ma l’ha intuita e ha capito quanto, in essa, c’entrino i giochi del potere, la politica e la Chiesa, e, in generale, i vizi dell’uomo, l’amore, il tradimento, l’onore.
A rendere ancora più accattivante il romanzo ci sono due belle donne: Virginia che stava coi partigiani, aveva la bocca a forma di cuore e i capelli nerissimi, interpretata sulla coperta del libro dalla intensa Partigiana M.; e poi, s’è detto, c’è la sinuosa Sylvie con “la vita stretta che si allargava su un bel culo candidoâ€.
Come è ovvio la vicenda è elettrizzante e si corre veloci all’ultima pagina. Il fatto, tuttavia, che Cazzullo abbia voluto infilarci Fenoglio mi fa dire altre due o tre cose. La prima, la più banale, è che per fare un libro di successo, oggi, è necessaria una narrazione scattante e agile. E che di conseguenza si perdono i particolari. Che lo stile, intorno al quale si era aperta una bella discussione sulla «Domenica» del «Sole24ore» a partire da un intervento di Gabriele Pedullà (‘Scrittori, bisogna avere stile!’, 28 agosto), ha poca importanza. E che, per effetto, il mito che respira nelle righe fenogliane, diventa cronaca o, al più, avventrura.
Ma in ogni caso, il libro di Cazzullo è bello, soprattutto se letto in un dopopasto autunnale con la fosforescenza delle foglie ancora aderenti ai rami.
Segnalo il collegamento all’articolo di pedullà che ha avviato il dibattito sullo stile dei narratori contemporanei: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-08-28/scrittori-bisogna-avere-stile-081509.shtml?uuid=AarOMbzD. Nell’archivio del quotidiano si potranno rinvenire tutte le risposte pubblicate successivamente sullo stesso inserto.