Pubblichiamo il racconto “È così che sono venuto a sapere” con cui Giorgio Giaccaglini, che ringraziamo, si è aggiudicato il Primo Premio Assoluto per la sezione ‘Narrativa breve a Tema Libero’ della XXII edizione del Premio Piemonte Letteratura 2015.
È così che sono venuto a sapere
racconto di Giorgio Giaccaglini
A quindici anni Marco era un atleta completo e già a quell’età si vedevano in lui le caratteristiche del campione: corporatura snella e potente muscolatura, rapidità nei movimenti e perfetta coordinazione in ogni situazione di gioco. Era uno spettacolo vederlo correre a testa alta per le fasce del campo, superare gli avversari con la potente e progressiva falcata, affrontare i contrasti con decisione senza mai allungare la gamba con l’intento di far male. Correva a perdifiato fino all’ultimo minuto ma se un giocatore rimaneva a terra dolorante, era il primo a buttare il pallone fuori dal campo per interrompere il gioco.
Al padre ripeteva: «Giocherò in una grande squadra di calcio e guadagnerò un sacco di soldi.»
«Bravo» gli rispondeva in tono ironico il genitore, «e io ti farò da procuratore e non avrò più da alzarmi all’alba per andare a lavorare. Bravo diventa un campione.»
Con questa e altre battute rispondeva il genitore per stemperare le luccicanti attrattive del figlio attento però a non spegnerne gli entusiasmi giovanili. Parlavano di calcio, seguivano le partite insieme, si arrabbiavano per la sconfitta della loro squadra o per un brutto fallo, a volte ci scappava pure una parolaccia, ma di tanto in tanto il genitore ripeteva frasi del tipo, il pallone non è tutto nella vita, usa la testa, gioca per la squadra perché così si vincono le partite. Marco rispondeva con uno sbuffo e un’alzata degli occhi verso il cielo e a volte non rispondeva affatto.
Nella squadra che Marco frequentava c’era un ragazzo grassottello e di bassa statura. Ma non era l’aspetto fisico a renderlo diverso dagli altri ragazzi, bensì l’atteggiamento schivo che teneva in loro compagnia. Era suo l’angolo più appartato dello spogliatoio, sedeva solo sul posto estremo della panca ed era l’ultimo del gruppo quando c’era da correre intorno al campo per far fiato. Parlava solo se interrogato, rispondeva con frasi brevi e sussurrate e con lo sguardo rivolto verso il basso. Rare erano per lui le convocazioni per gli incontri del fine settimana, improbabili le entrate in campo e solo in caso di vittoria ormai assicurata. E tuttavia, quel ragazzo grassottello e di bassa statura non saltava mai un allenamento.
Un pomeriggio Marco si accorse che la madre di quel ragazzo parlava col mister della squadra. Di solito non prestava attenzione ai battibecchi di genitori insoddisfatti e impertinenti. Provava imbarazzo, quasi vergogna, delle loro eccessive e a volte minacciose esternazioni. Ma era la prima volta che vedeva una donna parlare in atteggiamento agitato e insistente col mister e si mise a seguire la scena. E per ascoltare le loro parole, sbagliò di proposito un palleggio e fece rotolare il pallone in prossimità della coppia. Si avvicinò per recuperare la palla. Sentì dire: «Per mio figlio il calcio è tutto».
«Signora, non esageri. È un gioco» aveva risposto l’allenatore con lo sguardo fisso verso il centro del campo.
«Lo convochi qualche volta» insistette quella.
«Scusi la franchezza, ma suo figlio non è tagliato per il calcio.»
«Pago la quota e anche mio figlio ha diritto di giocare.»
«Conta il risultato. Devo convocare i migliori.»
«Lei non capisce.»
«Cosa c’è da capire?»
«Gli basta andare in panchina, giocare qualche minuto.»
Marco rimase colpito dal modo insistente del parlare della donna, dall’impertinenza con la quale si frapponeva agli occhi stretti e piccoli del mister, dalle argomentazioni precise di lei che parlavano del ruolo educativo e sociale dello sport.
«Deve trattare mio figlio al pari degli altri ragazzi.»
«Non ha senso. Gli faccia provare un altro sport.»
«Ha senso. Mi creda» disse quella con un filo di voce.
«Guardi» rispose il mister, «è lì, solo, non lega. Ripete gli stessi movimenti, sta da solo, non partecipa al gioco della squadra.»
La donna, con la voce di chi è ormai stanco di lottare, rispose: «Lui qui sta bene. A casa racconta dell’allenamento, della squadra, degli amici. Racconta di lei. Lo so, ripete le stesse azioni ma…». Si zittì. Chinò la testa. Era lì lì per dire altro, per raccontare del problema del figlio, della sindrome di Asperger che l’aveva colpito per la mancanza di ossigeno al cervello quand’era nato o, forse, per una causa genetica ma poi, avrebbe detto, questo non è importante. Avrebbe voluto dire a quell’uomo che suo figlio aveva otto in matematica, che aveva poche passioni, che erano sempre le stesse e a quelle si dedicava con ossessiva ripetizione. Stava per dire che suo figlio doveva sentirsi accettato, acquistare fiducia e provare il calore delle persone che gli stavano accanto. Avrebbe voluto dire tutto questo, ma incrociò gli occhi piccoli del mister, inespressivi e senza un tremore, e rimase in silenzio. C’aveva provato, senza pietose parole, a far intendere a quell’uomo che aveva bisogno di aiuto, aveva sperato in una frase del tipo come posso aiutarla, invece di suo figlio non è tagliato per il calcio. Lei non aveva bisogno della compassione della gente, lei aveva bisogno di aiuto. E così anche quel giorno disse: «Faccia come vuole.»
Marco vide la donna andar via col capo chino e oscillante di chi sa che non c’è più nulla da fare, ma, passando davanti alla sede della società calcistica, la vidi fermarsi e sollevare lo sguardo perché un uomo, il presidente, l’aveva chiamata. La vide avvicinarsi e parlare con quello per qualche minuto. Vide l’uomo porle una mano sulla spalla. Era un gesto semplice, istintivo e di conforto che ebbe l’effetto di sollevare in lei la paratoia che le bloccava le lacrime. La donna si asciugò le guance col dorso della mano per poi andarsene col capo sempre reclinato ma non più oscillante perché sapeva che suo figlio avrebbe continuato a frequentare gli allenamenti della squadra, sarebbe stato convocato alle gare del fine settimana e a volte avrebbe partecipato a scampoli di partita.
Accadde che un giorno d’inverno solo undici ragazzi si presentarono alla convocazione della partita. Il ragazzo grassottello e di bassa statura era tra quelli e giocò fin dall’inizio.
«Stai sulla destra, al limite dell’area di rigore avversaria» gli aveva detto il mister nello spogliatoio lanciandogli la maglia numero undici. Da lì, da quella posizione defilata, non avrebbe intralciato l’impostazione tattica della partita.
Quel giorno, la squadra giocò male. A quindici minuti dalla fine era sotto di un gol quando, con un guizzo improvviso e un tocco astuto della punta del piede, Marco a centrocampo rubò la palla a un distratto difensore. Fece uno scatto, si mise a correre lungo la fascia del campo convergendo verso il centro dell’area di rigore mano a mano che si avvicinava alla porta avversaria.
«Vai da solo» gli urlava il mister, «punta alla porta!».
Marco aveva fatto il vuoto dietro di sé ma nella foga della corsa colpì il pallone malamente. Gli schizzò a lato, lo rincorse, ne ricuperò il possesso. Ma il portiere avversario aveva approfittato dell’indecisione dell’avversario e gli si era fatto incontro per stringere lo specchio della porta.
«Tira» gli urlò il mister.
Marco sollevò lo sguardo per mirare l’angolo della porta dove indirizzare la palla, ma con la coda dell’occhio s’accorse del ragazzo con la maglia numero undici. Era dalla parte opposta alla sua, al limite dell’area di rigore, con la porta avversaria del tutto sguarnita, solo, perché nessuno lo considerava ormai un pericolo. Marco perse ancora del tempo domandandosi quale fosse l’azione più giusta da prendere. Tirare in porta, rasoterra, indirizzando la palla sul secondo palo facendola passare vicino ai piedi del portiere, colpendola con precisione e con forza e sperando che l’estremo difensore non fosse reattivo al punto tale da intercettarla con un tuffo? Oppure, passare il pallone all’amico posto in una posizione migliore alla sua?
Nel frattempo il portiere gli si era ancor più avvicinato col baricentro del corpo abbassato e le braccia e le mani allargate come un pavone che distende la coda per aumentare le dimensioni e spaventare il nemico. Ora è difficile per davvero, disse tra sé e sé Marco.
«Tira» gli urlò di nuovo l’allenatore che aveva intuito i dubbi del suo miglior giocatore. Gioca per la squadra… usa la testa sentiva ripetere dentro di sé le parole del padre. Marco seguì l’istinto del campione: fece il passaggio con un tiro rasoterra, deciso ma non troppo veloce, pulito e senza rimbalzi. Il ragazzo con la maglia numero undici colpì il pallone al volo e, seppur preso di sbieco, riuscì a inviarlo, saltellante, in direzione della porta. Il portiere fece una corsa a ritroso, si gettò in tuffo e deviò la palla con le punta delle dita. Quella cambiò direzione, rotolò verso la base interna del palo e s’infilò nella rete.
Il ragazzo con la maglia numero undici rimase impalato al limite dell’area di rigore. Restò lì, da dove aveva calciato, senza esultare perché lui non aveva compiuto nulla di speciale. Fece appena a tempo a voltarsi verso il centro del campo per seguire con lo sguardo la direzione indicata dal braccio teso dell’arbitro che venne sommerso dall’abbraccio dei compagni. Era un abbraccio impetuoso e sconosciuto. Non avvertiva la forza misteriosa che lo faceva irrigidire quando un altro essere umano che non fosse la madre provava a toccarlo. Non avvertiva il senso di soffocamento che innescava in lui una reazione di fuga. I ragazzi, stretti nell’abbraccio, caddero a terra. L’abbraccio era soffocante ma quel ragazzo rideva, rideva sereno e non fuggiva.
La partita finì in parità . Il ragazzo con la maglia numero undici uscì dal terreno di gioco con il sorriso di chi sente di aver compiuto una missione importante e ne è sollevato. Marco quel giorno gli si avvicinò e prima di raggiungere lo spogliatoio gli mise un braccio sulla spalla, gli disse bravo e gli diede un cinque col palmo della mano.
«Ti devo parlare.»
Era il mister che chiamava Marco non appena lo vide uscire dalla spogliatoio con in mano il borsone. Si allontanarono dal gruppo dai genitori che attendevano i figli.
«In campo devi fare quello che dico io.»
«Mister l’ho sempre fatto.»
«Ti avevo detto di tirare in porta.»
«Ma abbiamo segnato.»
«Dovevi tirare.»
«Era meglio passare.»
«Ma va’…» disse l’allenatore accompagnando la voce con un gesto del braccio, «lo sai che a volte neanche colpisce la palla.»
«Era in una posizione migliore.»
«In campo si fa quello che dico io.»
«Ma…»
«Basta così» interruppe il mister. «Ci siamo capiti?»
«Mister non sono d’accordo.»
«O fai come dico io, oppure stai fuori.»
Marco lasciò cadere a terra il borsone. «Faccia a meno di me» disse.
«Che vuoi dire?»
«Non vengo più.»
«Che fai? Non sarai mai un campione se non accetti le critiche. Ci vuole carattere.»
Marco non aveva mai replicato al tono aggressivo e sarcastico di un adulto perché pensava di non esserne capace. Ma avvertiva un calore opprimente salirgli su per il collo. Udiva dentro di sé le parole del padre: il pallone non è tutto nella vita. Alzò lo sguardo sugli occhi piccoli e stretti del mister e disse: «Mio padre ha ragione.»
«Su cosa ha ragione?» replicò l’allenatore con un tono di sufficienza.
«Che prima di essere campioni nello sport bisogna essere campioni nella vita.»
«Belle parole. Ma qualcuno dovrebbe insegnarti come, nella vita, ci si comporta.»
«Lei non ha nulla da insegnarmi.»
Se ne andò via lasciando a terra il borsone. Fece qualche metro. Si voltò e disse: «Domani torno a prendere la mia roba».
Da allora non vidi più Marco agli allenamenti della mia squadra. Fece carriera e arrivò a militare nei campionati professionisti. Io l’ho sempre seguito sulle pagine dei quotidiani locali. Cercavo il suo nome nell’elenco delle formazioni scese in campo e leggevo i resoconti delle gare con la speranza di trovare la descrizione di una sua impresa. Ritagliavo l’articolo, lo incollavo sulle pagine di un quaderno ed evidenziavo la parte che lo riguardava. Anni dopo avrei mostrato il quaderno a mio figlio. Gli dissi: «Vedi, io ho giocato con lui».
Marco subì un serio infortunio ai legamenti di un ginocchio. È tornato in città e con i soldi guadagnati da professionista e con quelli ricevuti dall’assicurazione ha aperto un’attività artigianale. Ha quindici persone che lavorano con lui e di loro dice, senza una squadra non si va da nessuna parte, nel calcio come nella vita. È anche diventato presidente della società calcistica dove gioca mio figlio. Di tanto in tanto lo incontro sui campi di calcio e a volte parliamo di quando giocavamo insieme.
È così che sono venuto a sapere delle speranze di gloria di un quindicenne, degli occhi stretti e piccoli di un mister, delle parole concitate di una madre, dei moniti di un padre desideroso di avere un figlio campione nella vita.
È così che sono venuto a sapere perché Marco, dopo avermi detto bravo e dato un cinque a fine gara, da quel giorno non si era più presentato agli allenamenti della mia squadra.
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