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Milk and honey to Santiago / X

Milk and honey to Santiago

di Sara Moneta Caglio

 

X.

Caterina o come si realizzano i sogni

 

Quando si parte si attende solo di arrivare e si rischia di non assaporare quella parte del viaggio che conduce all’inizio dell’avventura.
Quella volta non fu così, sentivo una eccitazione curiosa che faceva traballare il cuore di emozioni.
Le mie braccia desideravano cingere il calore di altre persone, accogliere immagini, dissetarsi di istanti, di sguardi, di letture. Un luogo sacro mi concedeva di entrare per le sue porte che sapevo non esser facili da penetrare.
Accanto a me, per un tratto, trovai Caterina. Una donna che si era decisa di voler far parte di quel cammino che non era esclusivamente mio. In un primo momento avevo paura potesse limitare i miei piani.  Non avevo ancora capito niente. Non sapevo che i programmi che mi ero prefissati li avrei abbandonati subito, sui Pirenei, per sentirmi per la prima volta libera di vedere.
Caterina non era costretta dalle sue paure, prigioniera delle sue manie, ma voleva esserci per ritrovare il coraggio di osare, di riprovare, di ripartire. Per tutte le strade e così anche per Santiago.
I suoi occhi, sin dal primo istante, in quella terra lontana, sembravano quelli di una bambina che tornava a sognare, a vedere la sua innocenza, la sua essenza.

I Pirenei assorbirono il primo strato della nostra superficiale apparenza, quella di cui non serve coprirsi, quella che non scalda, non protegge, ma inganna.  Quelle montagne, quando le attraversammo dalla Francia alla Spagna, si presero la nostra maschera e ci incominciarono a spogliare. Lì, tra quelle cime, mi ritrovai improvvisamente vestita solo della mia pelle. Per un’avventura che non aveva bisogno di serrature.
Questo è ciò che compresi faticando sulle salite verso Roncisvalle.
Avevo solo bisogno di un cuore libero e pronto a esporsi e a espandersi.

Ero solo all’inizio, ma nella pace di quel primo giorno sentivo un’energia capace di spostare montagne con un soffio, di attraversare oceani con un passo. Camminavo. Sentivo la terra sotto i piedi. Una terra che cominciava a guarirmi, ad accogliermi e a sotterrare le mie impronte, quelle del mio corpo prigioniero del passato.
Erano i volti delle persone che cominciavo a incontrare che mi facevano capire che quello era un mondo ideale. Anzi no, era l’unico mondo reale. Quei volti avevano voglia di comunicare, non importa che lo facessero con una parola o uno sguardo.
Mi rendevo conto che tutte le barriere e gli ostacoli dettati dalla diffidenza si ammorbidivano in uno spirito di comunione e apertura verso chiunque mi avesse soltanto sfiorato.
Condividere quell’esperienza cresceva il senso di appartenenza a un’unica famiglia. Volevo partire da sola. E solo ora, mentre attraversavamo un susseguirsi di cime, mi rendevo conto che non sarei stata sola un attimo, ma che potevo trovare raccoglimento in qualsiasi momento, nella pace della moltitudine, che sapeva rispettare i silenzi di cui avrei avuto bisogno.
Cominciai a guardare Caterina. Forse la prima volta dopo tanto tempo. Forse la prima volta realmente. Il suo volto sembrava distendersi, c’era un cambiamento in ogni suo passo, in ogni suo sforzo. Volevo conoscere in lei la parte di me che avevo soffocato, quella che non volevo vedere, quella della lentezza, quella del compromesso.

“Vorrei ascoltarti, vorrei sapere di te, da dove vieni, chi sei…” le dissi, dopo un silenzio assordante.
“Sognavo di ballare”, cominciò.
E mi raccontò di quando, da ragazza, con un cassetto pieno di sogni ancora da scartare, aveva vinto un concorso di danza a Milano e, contro le aspettative e le chiusure dei suoi genitori, con il coraggio dei suoi diciotto anni, aveva fatto le valigie ed era partita. La sua Sicilia era un altro mondo. Milano era troppo grande per una piccola donna.
Non sapevo niente di lei, sapevo solo del suo lavoro da impiegata. Che forse aveva accettato perchè non aveva passioni da inseguire. No, esattamente il contrario. L’aveva accettato per continuare a inseguire i suoi sogni. Quando hai un sogno, per realizzarlo devi avere anche i piedi per terra. Lei voleva arrivarci a quel palco. Voleva almeno provarci. Poi, purtroppo, a volte, la vita ci ostacola e noi, fragili, smettiamo di combattere e ci arrendiamo. Così ci adeguiamo a quella che non è la nostra natura, ci inganniamo di poterla accettare, ma non siamo più noi.
Così a Caterina si erano spenti gli occhi. Prima di riaccenderli di una luce abbagliante, quella che le vidi lì, quella mattina. Quella che la faceva danzare con l’eleganza di una farfalla su quelle montagne cui non si voleva più arrendere. Le salite erano il suo palcoscenico, la sua rivincita. Era tornata a danzare, semplicemente non sapeva che l’avrebbe fatto indossando scarponi pesanti, camminando in punta di piedi per non disturbare il suo destino, ora che si era decisa a riprenderselo.
Il suo sguardo lo paragonai a quello di un’altra ragazza, la prima che avevo incontrato nel mio cammino. Lei che ebbi a fianco per così poco e che pose nel mio cuore un seme che avrei poi coltivato.
Arrivava dall’Africa e doveva accelerare il suo cammino verso San Giacomo perchè, mi disse, non aveva tempo. L’avrebbe lasciato a me il tempo per poter riflettere e pensare.
“Sono partita per la Costa d’Avorio dieci anni fa” mi raccontò. “Avevo paura di lasciare tutto ciò che in Italia mi apparteneva e che ho poi imparato a capire non mi sarebbe servito a nulla”.
Era impegnata in un progetto di cooperazione internazionale ed era la seconda volta che tornava a camminare verso Santiago. I suoi occhi erano così chiari. Mi disse che si sarebbero accesi anche a me, fin dal primo giorno di cammino.
Così come era successo a Caterina. È più facile guardare negli altri che su se stessi.
Lei camminava per sconfiggere le amarezze di un mondo ingiusto al quale non si voleva arrendere e che voleva continuare a combattere più forte e decisa, anche se a volte sola e indifesa. C’era gioia e purezza nel suo sguardo. Luce dentro di lei. E luce fuori, soffice in quelle nuvole cariche di tradizioni, leggende e storie. Luce che addolciva la stanchezza del giorno, sempre così accecante.
Osservavo in silenzio il mondo che mi scorreva a fianco e mi rendevo conto che ero io a corrergli incontro.
Pensai che non valeva la pena di fermarsi, anche quando dei grandi dolori avrebbero potuto immobilizzarmi .
In quel momento mi venne in mente che, poco prima di partire, mentre salivo verso il Monte Bianco, avevo incontrato Roberta. Era magra come un spettro. Con un corpo talmente esile da piegarsi come uno stelo sotto la brezza leggera della sera. Aveva voglia di parlare alla natura delle sue pene d’amore. Le parlai del mio amico Santiago. Le diedi la speranza di potercela fare, non di sopravvivere, ma di vivere.
Pensai a lei e a tutte le ragazze che perdono tutto il loro peso nel baratro dell’anoressia. Le mandai l’energia di quel giorno, dove riuscivo a vederla lungo il sentiero, lontano da quel burrone che voleva cercare.
I miei pensieri erano come un fiume in piena che scorreva e si svuotava di tutta la sua acqua.
Una strana sensazione di pace invadeva il vuoto che la mia mente riusciva a conquistare.
Il paesaggio ammorbidiva la corazza della mia pelle. Anche i tratti del mio viso si distendevano e gli occhi erano spalancati, pronti ad accogliere quel che sarebbe entrato. Si nutrivano di aria, di sole, di profumo di erba, di fiori.
Non esisteva ferocia su quel sentiero. Non esistevano falsi sentimenti.
Ero partita per cercare Santiago e per trovare la verità del mio amore, quello che desideravo dare a chi poteva crederci senza averne le prove.

(Milk and Honey to Santiago, capitolo X, continua nel capitolo XI)

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