recensione di Lorenzo Fioretti
Alessandro Moscè (nato nel 1969, poeta, narratore e critico letterario) ha scritto un romanzo, L’età bianca (Avagliano 2016), che è ambientato nelle Marche, in particolare tra Fabriano e Ancona. Racconta la sua guarigione da un male alle ossa quando aveva 13 anni, così come aveva fatto con il libro precedente, Il talento della malattia, sempre uscito da Avagliano (nel 2012). Stavolta si occupa dell’amore, della sua musa, Elena, che arriva nell’adolescenza, ma che torna da adulta. Ciò che non era nato tra i due da studenti, affiora dopo trent’anni, trasformando una conoscenza persa nel tempo in un amore appassionato. Moscè ci racconta tante altre cose specie legate alla malattia, un classico della letteratura di sempre. Fa spesso riferimento ad un romanzo parallelo, Tutti i bambini tranne uno (Rizzoli 2008) del francese Philippe Forest, dove la realtà viene capovolta, rispetto a quella di Moscè. Qui la figlia dello scrittore, Pauline, muore per un osteosarcoma, mentre Moscè vivrà . Di fronte alla tragedia di una figlia di quattro anni, ad un padre non resta che scrivere. Parole impotenti, di rabbia e vuoto, per raccontare la storia di una bambina senza lasciare spazio alla consolazione. Il viaggio scandito dalla malattia e dalle cure, da cartelle cliniche e anonime lenzuola d’ospedale, per Alessandro Moscè, l’eponimo dello scrittore stesso, si dipana verso la salvezza, la redenzione. Una sofferenza che rende esuli, invisibili, ma dove il dramma personale si può fronteggiare appellandosi all’idolo calcistico Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio del 1974 che Moscè conobbe personalmente, quel simbolo di forza del quale aveva bisogno e che resterà per sempre l’eroe dell’infanzia. L’età bianca è l’età dell’adolescenza, della ripresa, della guarigione e quindi del ritorno alla normalità . È la fuga dalla disperazione e un nuovo inizio, fino all’amore con Elena. Ha dichiarato Alessandro Moscè che questa età irripetibile è incarnata da questa figura femminile che rappresenta un punto di rottura con il conformismo di maniera. Il fulcro del libro è dunque l’amore seguito dalla morte, o meglio il binomio eros/morte. Perché il vero antidoto allo spettro della finitudine umana non è la nascita, ma un polo di condivisione di un’unità perduta, una connotazione intimistica dei due sessi. “Basti pensare che Eros, nella tradizione, aiuta l’uomo a ricongiungersi al bene. È bellezza del corpo, ma anche bellezza del sapereâ€, ha dichiarato Moscè. Da un punto di vista linguistico, questa narrazione è icastica, ma allo stesso tempo specifica, specie quando viene introdotta una terminologia tecnica per descrivere che cosa è il rarissimo sarcoma di Ewing che lo scrittore contrasse. Con la scrittura ci si libera di un’ossessione, o forse si rivive due volte il male per scacciarlo una volta per tutte.
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