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Come gocce nel mare

Come gocce nel mare

Racconto di Riccardo Gazzaniga

(già apparso su Anonima Assassini III, edito da Tagete Edizioni nel 2010)

 
Arrivai in ufficio per il turno del pomeriggio. Quando attraversai il corridoio e vidi solo stanze vuote, mi resi conto che non avrei avuto compagnia.
Attribuii quella desolazione ai servizi di ordine pubblico che stavano impiegando un sacco di personale; io ero esentato da diversi mesi per un’ernia che mi stava facendo impazzire. In quel periodo un infortunio simile non sarebbe bastato a dispensarmi, ma ero diventato intoccabile da quando il Questore in persona si era interessato perché ottenessi l’esenzione.
Ero in ritardo, ma non per colpa mia. Il tragitto da casa alla Questura diventava sempre più complicato a causa della scarsezza di mezzi disponibili e dei posti di blocco sparsi ovunque. Fiume era un caos in cui i tedeschi si sforzavano di mettere un po’ del loro brutale ordine.
In tutta la città voci contrastanti rimbalzavano come palloni impazziti.
I tedeschi se ne vanno. No, restano, anzi, portano tutti quelli che possono in Germania. Arrivano gli Americani via mare. I soldati di Tito stanno per prendere la città. Qualcuno trama un accordo con gli alleati.
L’unica certezza era che una nube di violenza e morte sembrava sul punto di riversarsi su tutti quanti noi. Era così sin dall’inizio del 1944.
Quando entrai in ufficio fui sorpreso di trovarci l’appuntato Ferrari. Era pallido e si mordeva le labbra, mentre camminava nell’angusto spazio dietro una delle due scrivanie disponibili. Non appena mi vide si affrettò a chiudermi la porta alle spalle.
“Hai saputo?” disse prendendomi un braccio.
“Cosa?” risposi, avvertendo un orrido presagio. Il mio collega si avvicinò ancora di più e abbassò la voce. L’alito sapeva di quel vinaccio di cui teneva sempre una scorta nel cassetto.
“Il Questore Palatucci. Lo hanno arrestato ieri sera quelli della Gestapo, insieme al tenente Santini. C’era Kappler in persona!”.
Non potei vedere la mia faccia, ma credo di essere diventato un cencio. Le mie peggiori previsioni si avveravano.
Ferrari mi si fece ancora più vicino e mi tirò per la giacca. Ebbi quasi l’idea che volesse aggredirmi in uno scoppio di nervosismo e paura, invece piantò gli occhi dentro i miei.
“Capone, dicono che hanno scoperto tutto”.
Fece una lunga pausa febbrile.
“Dicono…”.
Si interruppe per deglutire.
“Dicono che beccheranno tutti quelli che aiutavano gli ebrei e li manderanno su in Germania” sentenziò continuando a fissarmi, e quelle parole mi trafissero la testa come una pallottola. Sarei voluto svanire, diventare solo un’ombra e fuggire nel buio. Ma invece no, era il buio che veniva a prendere me.
“Sempre che non li ammazzino prima” concluse solennemente Ferrari.
Sapevo di dover dire qualcosa, qualsiasi cosa. Ma un rasoio invisibile aveva reciso la matassa di legamenti e muscoli che permettevano alla mia bocca di aprirsi e alla mia lingua di articolare un suono sensato.
“Cazzo, Capone” disse Ferrari digrignando i denti e colpendo con un calcio la base della scrivania. “Che minchia mi hai fatto fare, eh? Non dicevi che era tutto a posto? Palatucci è uno con tante conoscenze, non arriveranno mai a lui. Invece siamo nella merda, lo capisci?”. Continuava a parlare a bassa voce anche in mezzo agli uffici deserti.
“Lasciami, cazzo!” sibilai liberandomi con uno scatto dalla sua stretta al braccio. Lui rimase sorpreso per un attimo, poi si passò una mano sul viso rotondo.
“Non sanno niente. NIENTE. Capito?” sussurrai cercando di convincere più me stesso che lui. “E tu stai tranquillo. Non sei mai andato fuori e le liste le ho sempre tenute io. Non esistono prove contro di te”.
Ferrari mi guardò e mi parve di veder baluginare sul suo volto un lume di speranza. E faceva bene a sperare, perché quello fottuto ero io, mica lui.
“Ma se scoprono te beccano tutti quanti, lo capisci? Io, Marchese, De Sanctis, Cassini” ricominciò.
“Stai tranquillo. E zitto. Non devi parlare, capito?”. Il mio tono divenne minaccioso. “Taci e pensa per te. Se nessuno parla non possono farci nulla” aggiunsi.
“Ascolta devi far sparire tutto quanto. Subito, stasera” disse Ferrari.
Io lo fissai, allora. Era parecchio più grosso e vecchio di me, ma penso che i miei occhi gli misero un brivido addosso.
“Lo so, ma non azzardarti a dare ordini. Per il poco che vale ancora questa divisa, rimango un tuo superiore”.
Lui restò di sale per un lungo istante.
“Fanculo, io me ne vado” disse poi passandomi oltre. “Comunque tieni, me l’ha portato stamattina Cassini”. Mi mise in mano un foglietto stropicciato senza guardarmi negli occhi. ”Non ne valeva la pena” aggiunse e poi svanì.
Non lo avrei più rivisto.


Sedetti alla scrivania, sentendomi traballare.
Il Dottore. Palatucci.
Cazzo, non era possibile, proprio adesso che era diventato Questore e io pensavo che fossimo a posto, che i sospetti finissero. E poi mancava così poco, accidenti.
“Pino, non ti preoccupare, dobbiamo tirare avanti ancora qualche settimana. Lo so che è dura, ma tra poco finirà tutto”. Così mi aveva detto l’ultima volta che ci eravamo visti, in un bar poco distante da casa mia. Da quando era diventato Questore si incontrava di rado con noi del vecchio ufficio, per non destare sospetti.
Non aveva aggiunto altro, era troppo riservato per farlo e, di certo, non voleva coinvolgermi ancora di più. Ma le voci mi erano arrivate da un’amica della sua fidanzata: il Dottore stava tessendo contatti sia con i partigiani jugoslavi che con gli alleati. Forse aveva in mente di sostenere un movimento federale per l’autonomia fiumana. Ma era un progetto impossibile senza collaborazioni esterne e allora stava tirando le fila di trame intessute per anni, al costo di azzardi e pericoli.
Eravamo come Dorando Petri, il maratoneta crollato a pochi metri dal traguardo olimpico.
Avevamo rischiato molto, quando il Dottore era solo un funzionario e il Prefetto Testa ci stava addosso. Quello li odiava, gli ebrei, e aveva intuito che qualcosa non andava all’Ufficio Immigrazione. Ma non era riuscito a capire cosa. Non solo, aveva pure ricevuto degli encomi da Roma, perché con tutte quelle carte false che facevamo circolare sembrava che a Fiume lavorassimo come dannati. In effetti lavoravamo, ma non come volevano loro.
Nel primo periodo eravamo stati efficientissimi, spedendo un sacco di ebrei al campo di concentramento di Campagna, in provincia di Avellino. Da noi, in Istria, nessuno sapeva che quel campo era gestito da Monsignor Palatucci, lo zio del Commissario. Che laggiù gli internati dormivano in appartamenti con letto e luce e i poliziotti chiudevano entrambi gli occhi. Che si mangiava, si beveva e si faceva pure l’amore. Che si poteva dire messa. Che per quegli ebrei non era come essere liberi, certo, ma almeno riuscivamo a non farli finire in Germania.
Avevano fatto ispezioni, qualcuno aveva scritto rapporti, ma le conoscenze di Monsignor Palatucci e l’ostinazione dei poliziotti a guardia del campo avevano permesso che l’andazzo non mutasse troppo.
Per noi era stato quasi facile, per un po’. Risultava che mandavamo gli ebrei giù a Campagna e tutto andava bene.
Ma poi erano cominciati i rastrellamenti anche da noi e le partenze di treni per la Germania e allora avevamo dovuto esporci sempre di più, per salvare quanti potevamo.
Purtroppo i tedeschi si erano rivelati assai più intransigenti degli italiani, che fingevano di non capire o lasciavano correre in cambio di piccoli favori. Nessuno voleva che il regime mandasse i suoi uomini a occuparsi della faccenda.
I nazisti, invece, avevano spie dappertutto. Per questo avevano iniziato a sospettare subito.
Si erano mossi solo dopo che gli avevamo fatto saltare l’ultima retata. Avevano preso Palatucci per decapitare l’organizzazione e ora sarebbero arrivati anche a noi.
Mi ritrovai a pensare che era colpa mia, perché in quel casino mi ci ero messo da solo, il giorno in cui ero andato a salutare il Dottor Palatucci all’Ufficio Immigrazione. Visto che venivo dalla sua zona, avevo pensato che potesse gradire la visita di un paesano. Eravamo colleghi, con le dovute differenze di grado. Ma avevamo fatto le elementari insieme, anche se lui era di tre anni più grande e poteva essersi dimenticato di me.
Invece il Dottore si era ricordato e mi aveva fatto un sacco di feste. Mi aveva invitato a bere qualcosa in una piccola osteria che conosceva e avevamo parlato della nostra terra. Di quanto ci mancasse, della speranza di tornare presto. Poi di ragazze e di non so cos’altro. Comunque avevamo chiacchierato quasi un’ora, prima che mi congedasse.
Mi aveva detto di ritornare l’indomani, ma da un’altra parte. Che gli sembravo ‘nu bravo guaglione e voleva parlarmi di una faccenda delicata, per vedere se potevo fargli qualche piccolo piacere.
“Ma certo, Dottò a sua disposizione, ci mancherebbe” avevo risposto io.
E mi ero fregato. “Con un no ti spicci, con un sì mi impicci” aveva sempre detto mia madre. Io non l’avevo ascoltata e mi ritrovavo a pagarne le conseguenze. Mi vergogno a dirlo, ma in quegli uffici deserti, pregai di poter cambiare il passato.
Se fossi stato un apostolo sarei stato Giuda.
Era stata una follia farmi trasferire all’Immigrazione per aiutare Palatucci. Tutti quei documenti che avevamo contraffatto, tutta la gente che avevamo avvisato prima che i tedeschi andassero a cercarla. Senza contare quanti avevamo fatto infilare in Italia, dai varchi di confine dove sapevamo che la vigilanza era allentata. Del resto, c’era la guerra e gli uomini servivano altrove. E il Dottore aveva conoscenze anche nell’Esercito: gli davano le dritte giuste, segnalandogli i punti deboli della catena di controllo.
Quando non sapevamo proprio come fare mandavamo gli ebrei da altre persone fidate cui, in cambio, Palatucci faceva pervenire i suoi “regalini”: sigarette, qualche vestito, vino, spiccioli, roba per le famiglie. Per tutti quei disperati c’era un solo nome, un’unica speranza cui fare appello: Giovanni Palatucci.
“Palatucci metterà tutto a posto, state tranquilli”, quante volte lo avevo detto anche io. Invece questa volta i tedeschi avrebbero messo a posto me.
Perché lo avevo fatto? Per cosa sarei finito su uno di quegli schifosi carri bestiame o, peggio ancora, con la faccia contro un muro mentre i miei colleghi mi sparavano alle spalle? Il bello era che non ne avevo guadagnato nulla. Nessun premio, nessun vantaggio. Nemmeno una grappa, un po’ di soldi o qualche maglione in più. Non avevamo mai accettato i regali che ci offrivano, noi dell’ufficio.
Era tutta colpa sua, dannazione. Colpa del Dottore che mi aveva convinto, dicendomi che dovevo servire il mio paese, da buon poliziotto. Ma che non potevo farlo, se obbedivo agli ordini. Non quando il mio stesso paese diventava infame. Infame, proprio così aveva detto.
Diceva che Dio, da lassù, mi avrebbe guardato e avrebbe capito e mi avrebbe perdonato. Anche se infrangevo regole e leggi.
Dio, Dio, Dio… Aveva sempre Dio in bocca, il Dottore! Dio doveva pensare a tutto. Ma dov’era Dio quando lo avevano arrestato? Avrebbe forse evitato che ci mettessero su un vagone piombato, quel suo Dio?
In Germania no. Non poteva capitare a me, continuavo a ripetermi. Finire come un partigiano, a me che i partigiani mi erano sempre stati sulle palle perché erano comunisti e si sapeva che i comunisti…
Avrei dovuto fottermene dal principio e non dar retta a quella follia di salvare gli ebrei, maledetto me. Erano problemi loro se, da che mondo era mondo, nessuno li poteva vedere. Che poi, in Germania, chissà se capitava davvero quanto dicevano. Qualcuno mi aveva raccontato di cataste immense di occhiali, scarpe e persino denti. Di docce che emettevano gas sotto cui venivano passati anche donne e bambini. Di esperimenti su uomini vivi, per testare i sintomi di malattie virulente, dei veleni e dei gas.  Di forni che non smettevano mai di bruciare e camini che fumavano senza sosta.
Ma potevano essere solo stronzate propagandistiche e io mi ero fatto convincere così, senza sapere davvero nulla, senza capire niente. Forse perché non avevo studiato e invece il Dottore era laureato. Per quello mi aveva fregato con tutti i suoi discorsi, maledette insufficienze prese per non aver aperto i libri. Ecco cosa succedeva a chi non studiava e si faceva manovrare come un burattino.
Mi venne in mente quando una volta avevo chiesto a Palatucci cosa sarebbe accaduto se ci avessero beccato. Lui per un attimo si era fatto serio, aspirando una lunga boccata di sigaretta. Nonostante gli abiti eleganti che portava e i capelli ingelatinati, per un attimo mi era parso solo un ragazzino finito troppo presto tra gli adulti. Ma poi era tornato uomo, sorridendomi come un padre farebbe con un figlio. Lui e quel sorriso sincero che ti conquistava, accidenti.
“Nun ce penzà, Antò, andrà tutto bene. Davvero, nun ce penzà…” così aveva detto.
Nun ce penzà, era quello il suo motto. Aveva sempre una calma che io nemmeno nella culla. Ma a forza di nun ce penzà era andato tutto a puttane.
E adesso?
Dicono che hanno scoperto che aveva contatti dappertutto. E anche qui da noi.
Santini era peggio di un cane da caccia. Aveva scovato almeno dieci partigiani, in città. Di due di loro si era occupato personalmente, perché avevano cercato di fare resistenza. Nessuno aveva trovato da ridire sul fatto che avesse usato la pistola invece che le manette.
E Kappler… Solo sentirne il nome mi gelava il sangue.
Dopo aver dato un’occhiata al corridoio andai al mobile vicino alla mia scrivania, con il cuore che mi martellava. C’erano un sacco di faldoni, io presi quello con sopra scritto “Richieste materiali di cancelleria”. Da sotto le domande protocollate di penne e matite tirai fuori una pila di fogli anonimi pieni di nomi, indicazioni, appunti. Erano tutte note scritte a mano, piccole e fittissime. Era stato il Dottore a dirmi di tenere quell’elenco. Doveva ricordarci cos’era stato delle persone e dei singoli nuclei familiari: dove li avevamo mandati, con l’aiuto di chi, se avevamo dei recapiti loro o di altri congiunti. Magari persone a loro volta disposte ad aiutarci. Insomma, tutte le notizie di cui disponevamo.
Sospirando infilai i fogli nella mia borsa di pelle. Quella sera li avrei bruciati, come aveva detto il Dottore sin dall’inizio: “Se prendono qualcuno dobbiamo far sparire tutto, Antò”.
In tasca mi era rimasto il foglietto consegnatomi da Ferrari per conto di Cassini.
“Ore 21, Corso Trieste, portone 32, signori Schomberg. Indirizzare rif. 3”.
Lo strappai in pezzi piccolissimi, imprecando contro gli ebrei, Palatucci e il mondo intero.

Trascorsi il resto del pomeriggio ascoltando i rumori del corridoio con i sensi all’erta. Temevo di sentire all’improvviso uno strepito di stivali sul pavimento. Che arrivasse Santini per portarmi via. Oppure Kappler in persona con le SS.
Continuavo a chiedermi come avessero scoperto il Dottore. Qualcuno doveva aver parlato. Iniziai a passare in rassegna i papabili infami.
Non poteva essere Ferrari, quel buono a nulla cagasotto. Altrimenti perché aspettarmi e darmi quella notizia? Stava morendo di terrore pure lui.
Forse De Sanctis, il funzionario che aveva sostituito Palatucci? Non si era fatto conoscere molto da noi. Era rimasto sulle sue, limitandosi a concederci quanto chiedevamo e firmare le nostre richieste. Avevamo continuato con le nostre “pratiche”, come quando c’era stato il Dottore. Ma De Sanctis sapeva: era stato Palatucci a metterlo lì, visto che erano amici da anni. Possibile che lo avesse venduto, esponendosi pure lui al rischio di un’accusa di tradimento?
No, non ci credevo. Il Brigadiere Cassini? No, impossibile. Mi aveva pure confessato che suo padre era comunista. Per non parlare di Denti che per il Dottore si sarebbe buttato nel fuoco. Come Capuozzo.
Restava Marchese.
Mi ricordai che una settimana prima lo avevano fatto chiamare in ufficio da due ragazzini del Corpo di Guardia. Lì per lì io e Ferrari eravamo stati un po’ in apprensione, ma quando era tornato ci aveva detto che si trattava di una notifica processuale, roba di due anni prima.
Marchese.
Parlava sempre poco e sembrava fregarsene di tutto. Con la sua cultura e quell’aria da intellettuale, non aveva mai partecipato attivamente alle nostre operazioni. Quando si era accorto di cosa accadeva aveva chiesto di restarne fuori: era padre di un bambino piccolo e non se la sentiva di mettersi nei guai. Avrebbe mantenuto il silenzio, a patto che non lo tirassimo in mezzo. E così era stato: lo avevamo tenuto fuori. Ma alla fine si era messo in mezzo lui, brutto bastardo. Se si trattava di Marchese non avrei avuto scampo: conosceva bene i nomi di chi era coinvolto, tutti quanti.
Non feci nulla, per tutto il pomeriggio, a parte tormentarmi il cervello. Continuavo a fissare la borsa di pelle con i documenti che avrei dovuto far sparire, mentre nella testa avevo stampata a fuoco l’immagine del Dottore. Fui molte volte sull’orlo delle lacrime. Lo detestavo, in quelle ore terribili, per avermi condotto al baratro che mi avrebbe inghiottito. Ma non potevo pensarlo imprigionato al carcere del Crotoneo. Uno come lui buttato lì dentro in cella, peggio che un criminale.
Era stata una follia.
Quando arrivarono le otto presi la mia valigia. Era leggera, ma il contenuto pesava tonnellate sul mio cuore. Se scoperti, i fogli che conteneva avrebbero sancito la mia condanna. Ma non avevo altra scelta.
“Buonasera maresciallo” mi salutò una delle guardie, mentre uscivo. Era un ragazzino che conoscevo di vista e decisi di fermarmi.
“Ciao. Ascolta” dissi a bassa voce.
“Mi dica”.
“Ma è vero che hanno arrestato il Questore?” domandai.
Lui si guardò intorno, un po’ a disagio.
“Non sapete nulla?” mi domandò spalancando gli occhi.
“No, sono arrivato che non c’era più nessuno in ufficio. Quando è successo?”.
“Ieri sera tardi, mi hanno detto. Sono andati a prenderlo a casa i tedeschi con quel funzionario”.
“Santini?”.
“Sì credo, Marescià. Dicono che c’erano quelli della Gestapo, però non mi faccia parlare che…”.
“Va bene, stai tranquillo. Sei amico mio, non ti preoccupare”.
“Grazie. Ancora non mi sembra vero, povero Dottò. Mi hanno detto che ieri l’hanno visto scuro tutto il giorno. Forse sospettava già qualcosa. Ma quando è uscito ha salutato i ragazzi come se niente fosse e ha fatto pure un sorriso”.
Sentii un brivido passarmi lungo la schiena e mi detestati per la mia vigliaccheria. Io me ne ero stato tutto il pomeriggio a maledire il Dottore, ma avevano preso lui, mica me o qualcuno degli altri. Eppure lui se n’era andato così, con un sorriso e un saluto ai colleghi. Da uomo, come sempre. Feci una carezza sul braccio al ragazzino, dove teneva il mitra.
“Stai in campana, collega. E grazie” gli dissi congedandomi nel buio. Sperai che non portassero lui, se decidevano di arrestarmi.

“Ore 21, Corso Trieste, portone 32, signori Schomberg. Indirizzare rif. 3”.
Forse avrei potuto fingere di essermi dimenticato del foglietto per giustificarmi con me stesso e mancare all’appuntamento. Ma la memoria visiva era una delle mie poche qualità di sbirro e il testo di quel pezzo di carta strappato mi era rimasto in mente, inchiodandomi al compito che mi avevano assegnato.
Sarebbero stati gli ultimi due, poi basta, stop, non avrei più voluto saperne.
Cinque minuti prima delle nove aprii il portone con le chiavi fornitemi sei mesi prima, da Palatucci in persona. Pensandoci avvertii un brivido, ma ormai non potevo tornare indietro. Quel portone, con altri due, era deputato al primo contatto con le persone.
Poi c’erano i rifugi presso contatti fidati, dove indirizzavamo quelli che avevano bisogno di un posto per passare la notte o persino superare periodi di qualche giorno. In attesa di capire cosa si poteva fare.
Lasciai l’ingresso socchiuso e accesi una sigaretta nell’attesa. Gelavo per il freddo e l’ansia. Sistemai la valigia nel sottoscala, al buio, in mezzo ad alcune cianfrusaglie. Una volta conclusa quell’ultima “pratica” avrei distrutto tutte le prove.
Poi basta. Non potevo andare avanti. Avevamo fatto quello che potevamo, come potevamo. Ma adesso, senza il Dottore, non aveva più senso continuare. Non volevo morire, io.
La porta si aprì alle nove e tre minuti.
Entrò il Tenente Santini, in divisa. Con lui c’era Marchese, in borghese, con l’arma d’ordinanza in mano. Si chiusero l’uscio alle spalle e Santini sorrise. Era alto e portava baffetti sottili come le sue labbra e crudeli quanto i suoi occhi chiarissimi. La sua adorata divisa era inamidata e perfetta. Non lo avevo mai visto senza.
“Oh, ma chi si vede! Cosa ci fa qui, Maresciallo Capone?” mi domandò sarcastico.
Io deglutii, incapace di parlare, con gli occhi sgranati. Avevo addosso la mia pistola, ma non ne ero neppure consapevole.
I pensieri già mi si ammassavano in testa.
Arresto. Carcere. Oppure fucilazione. Germania, Traditore.
Mamma che piange, Laura che trova un altro uomo e si fa un’altra vita. Migliore, che uno scemo come me mica se la merita.
I colleghi, l’ufficio, il ragazzino al corpo di guardia, che vergogna. Capone? Un così bravo poliziotto, uno con la tessera del PNF.
Era amico di Palatucci, quello che salvava gli ebrei.
Scrivere una lettera, chiedere scusa.
Sì, chiedi scusa, forse fai in tempo, forse ti salvi. I documenti, Santini non li vede, sono nascosti nell’angolo. Tratta. Digli che confessi tutto, basta che ti lasci vivere.
“Allora è vero che questo sistema di bigliettini funziona bene!” esclamò il tenente con un sorriso gelido. Dietro di lui torreggiava Marchese che puntava la sua arma verso di me, con il viso composto a una maschera senza emozioni. Io non trovai nulla di ribattere. Del resto cosa potevo inventarmi? Ero spacciato.
Santini mi si avvicinò, fissandomi dritto negli occhi.
“Allora, Capone, ti spiego la situazione nel caso in cui non l’avessi chiara” iniziò.
“Il tuo amico, il Dottore, è stato arrestato. Stamattina. Lo sapevi?”.
“Sì” balbettati.
“Bene. Lui ha parlato. Ci ha detto tutto quanto. Di cosa facevate e come. Credo che così si farà solo un po’ di carcere. Sempre meglio che la Germania no?”.
Io annuii. Non potevo fare altro.
“Ma Palatucci è il Questore. Mi capisci? Per la truppa invece funziona diversamente” sorrise gelido Santini. “Domani mattina c’è un treno, Capone. E ho fatto tenere un posto in prima classe per te. Non importa il processo: con l’aiuto del Comandante Kappler, basterà un verbalino d’arresto. Poi farai ricorso da lassù, se lo riterrai utile” mi disse il tenente, e i suoi occhi chiari luccicarono nella penombra del portone.
“Però non è ancora tempo” aggiunse poi. “Come vedi sono venuto qui senza i tedeschi. E sai perché?”.
Io ero alla sua mercé, paralizzato dal terrore. Scossi il capo in segno di diniego.
“Per proporti un piccolo accordo. Io ti salvo dal treno, niente Germania. Ti faccio fare un po’ di galera con un’accusa stupida che ti eviti la deportazione. Tu lasci la Polizia e mi dai i documenti. Tutti”.
“Quali documenti, Dottore?”, riuscii a balbettare.
Lui sorrise. Poi mi colpì con una testata in faccia, facendomi esplodere il naso. Caddi a terra, mentre con la coda dell’occhio vedevo Marchese che si spostava tenendomi sotto il tiro della rivoltella.
Il tenente si abbassò sugli stivali lucidi.
“Capone, non prendermi per il culo, lo so che li hai tu. Non ho bisogno di quelle carte, per arrestarti. Con questo non ci vorrà molto a convincere gli amici tedeschi” disse tirandosi fuori dalla tasca un foglietto ben ripiegato. Lo aprì e, nonostante il dolore, vidi che era uguale a quello che Ferrari mi aveva recapitato. Solo che quello nelle sue mani riportava la firma del Dottor Palatucci.
“Ma se mi dai quei documenti, io ne tiro fuori una bella indagine completa, con prove e nomi. In cambio questo foglio sparisce e tu non vai in stazione, domani. Non ti preoccupare, i colleghi non sapranno nulla, vero Marchese?”, disse il tenente.
“Certo” confermò in tono piatto l’altro.
“Ora alzati” mi ordinò Santini e mi tirò su a forza, schiacciandomi contro il muro.
“Nell’angolo signor Tenente, lo porti nell’angolo” sentii dire a Marchese. Santini ascoltò il suggerimento e mi spinse verso il sottoscala, dove era più buio. L’altro rimase sempre attaccato a noi.
Il tenente si tirò fuori un fazzoletto da una tasca dei pantaloni e mi pulì il viso dal sangue.
“Allora, dove hai messo i documenti? A chi li hai dati?” mi domandò, mentre mi ripuliva la faccia schiacciandomi volutamente il naso ferito. L’odore del suo dopobarba emanava forte dal viso perfettamente rasato. Io lo fissai, soffocando il dolore, perduto in un gorgo di disperazione. La valigia era lì, a pochi metri da noi due.
Era l’unica ancora di salvezza rimastami.
Nonostante una parte di me mi implorasse di farlo, io non parlai. Santini attese qualche attimo ancora, poi mi strinse forte la mascella con la mano, piantandomi ancora l’indice sul naso tumefatto.
“Se non collabori, dopo averti spedito in Germania mi occuperò di fare qualche indagine sulla tua famiglia e la tua fidanzata, Capone. Chissà che non scopra cose interessanti”.
A quelle parole, nonostante il terrore e l’indecisione e il desiderio di salvarmi la vita, la rabbia mi gonfiò il cuore. Avrei voluto strappare la giugulare a quel verme, ma intanto Marchese si era spostato di lato, puntandomi la pistola dritta al cranio. Tremai, stringendo le mascelle e fissando Santini con tutto l’odio di cui ero capace.
Poi Marchese si mosse. Era grande e grosso e lo avevo sempre visto spostarsi lentamente, ma quella sera fu rapidissimo.
Colpì Santini con il calcio della pistola con una violenza inaudita. Quello non fece in tempo a cadere a terra che già Marchese gli era addosso. Torse la testa del tenente di lato e io sentii crac.
Santini si afflosciò come un pupazzo.
“Forza, aiutami” mi disse, mentre già spogliava il corpo della divisa.
Ancora allibito, cercai di aiutare il mio collega. Denudammo il cadavere e lo infilammo proprio nel sottoscala. Pensai con maligno sarcasmo che alla fine il tenente ci era arrivato, ai documenti che cercava.
“Credevo lo avessi scritto tu, quel foglio” riuscii a balbettare quando finimmo. Avevo il fiato rotto dalla paura e dalla fatica.
“No, è stato Ferrari. Santini è andato a casa sua, stamattina all’alba. Le carte?”
“Sono lì, vicino a lui. Le volevo distruggere proprio stasera” risposi io, straniato, indicando un punto vicino a quello dove avevamo sistemato il corpo.
Sul viso di Marchese si dipinse un sorriso.
“Dove le tenevi di solito?”
“In ufficio”.
Il mio collega scosse il capo, quasi divertito.
“Quell’imbecille pensava avessi un nascondiglio segreto” disse accennando con il mento al cadavere. “Il grande investigatore non ha cercato da voi perché diceva che era troppo ovvio”.
Fece una brevissima pausa, poi mi squadrò.
“Sai, ho avuto paura che le avresti tirate fuori, dopo che ha parlato dei tuoi”.
Io non potei negare.
“Ma davvero il Dottore ha confessato?” domandai invece.
Lui mi raggelò con lo sguardo.
“No, è una stronzata. Santini stava solo bluffando. Palatucci non ha detto una parola”.
“E come è arrivato a te?” insistetti io.
“Boxavamo insieme, un anno fa. Ha pensato di potersi fidare, perché Ferrari gli ha detto che non partecipavo alle vostre operazioni. Ma è sempre stato un imbecille” concluse.
“E ora? Dove andiamo?” chiesi.
“Hai la tua arma?” mi domandò Marchese, mostrando una determinazione di cui non l’avrei mai ritenuto capace.
Risposi di sì.
“Bene. Vai a casa, veloce. Santini non aveva detto a nessuno di stasera. Dopo che hanno arrestato il Questore gli hanno demandato l’indagine sui pesci più piccoli e lui ha deciso di risolvere tutto da solo, per farsi bello con i tedeschi. Forse riusciamo ad avere un po’ di tempo, ma è meglio se le carte le prendo io. Tu portati qualche vestito e poi passa da me. Ti ricordi dove abito?”.
Io dissi di sì. Eravamo stati a bere un bicchiere da lui, una volta, con Cassini.
“Ottimo. Vieni lì per mezzanotte. Poi partiamo”.
“E dove andiamo?”.
“In montagna, Antonio. Dobbiamo sparire. Senza le carte gli altri sono al sicuro, ma Ferrari è coinvolto e parlerà di sicuro, appena troveranno il corpo di Santini”.
Fece una breve pausa, come se riordinasse le idee.
“Se ci beccano, ci ammazzano senza nemmeno il processo. Bisogna che andiamo in montagna e continuiamo a lavorare da lì”.
“Lavorare?” domandai io, in preda alla confusione.
“Sì, esatto. Servire l’Italia, Antonio. Come ci ha insegnato il Dottore”.
Io mi passai una mano fra i capelli. Avevo milioni di obiezioni da fare, ma le trattenni. Marchese però aveva ancora qualcosa da dirmi.
“Guarda che io mi occupavo della logistica: gli ho procurato le chiavi e i rifugi, ma il Dottore non ha voluto che trattassi le pratiche. Gli serviva tenere uno pulito, nel caso di problemi. E ha avuto ragione anche stavolta”.
Ero esterrefatto.
“Dai, dobbiamo andare. Hai capito tutto quanto?” disse lui.
Io ripetei il nostro breve piano, poi uscii da solo, nel buio, domandandomi come avrei fatto in montagna, come i partigiani. A sfuggire ai tedeschi. Forse a combattere contro altri italiani.
Ma non c’era scelta. Avevo imboccato quella strada quando avevo iniziato ad aiutare il Commissario Palatucci. Lui mi aveva permesso di servire il mio paese senza tradire la mia umanità. Mi aveva concesso di rimanere nel giusto, a dispetto di tutto quanto di ingiusto ed orrendo era intorno a me.  Adesso sarei stato orfano, senza la sua guida.
Mi avviai verso casa con la testa affollata di pensieri. Dentro ruggiva la paura di non essere all’altezza di quanto mi attendeva oltre quella notte.
“Nun ce penzà, Antonio, nun ce penzà” mi sussurrò in testa la voce del Dottore e, per la prima volta, quelle parole fecero sentire meglio anche me.
Cominciai a correre nell’oscurità.

Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume, con l’aiuto di altri poliziotti al suo comando, favorì la fuga o il salvataggio di oltre un migliaio di ebrei destinati all’arresto e alla deportazione.
Molti dei salvati vennero dirottati presso il campo di prigionia di Campagna (Avellino), gestito dallo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci. Altri vennero forniti di documenti falsi o fatti fuggire prima di essere rastrellati, altri ancora furono fatti transitare verso zone sicure e località protette.
Palatucci venne arrestato dai soldati di Herbert Kappler, probabilmente a seguito di una delazione. Dopo una breve detenzione fu deportato a Dachau, dove morì due mesi dopo di tifo. Venne sepolto in una fossa comune e i suoi resti non sono stati mai ritrovati.
Lo stato d’Israele ha scelto di conferirgli la sua più alta onorificenza ovvero il titolo di “Giusto fra le nazioni”. Solo dopo questa decisione e con colpevole ritardo, l’Italia gli ha conferito la medaglia d’oro al valor civile.
A Giovanni Palatucci sono intitolate oggi strade, piazze, giardini e la biblioteca di cui l’autore è responsabile.

***

Riccardo Gazzaniga ha 36 anni e vive a Genova.
Lavora come Sovrintendente della Polizia di Stato nella caserma di Bolzaneto, dove alterna la gestione di una biblioteca unica in Italia ai servizi di ordine pubblico.
E’ rappresentante sindacale CGIL, sbattezzato, amante del nuoto, tifoso della Juventus, appassionato di horror, ascoltatore di hard rock anni Ottanta.
Ha vinto diversi premi letterari dedicati ai racconti brevi, in particolare di genere noir, fra cui spiccano il premio “Orme Gialle”, il premio “Carlo Levi” e  il premio speciale “Mario Casacci” per il racconto meglio adattabile alla forma filmica.
Con racconti non di genere ha vinto i premi “Il Prione” e “Torino Arte Città Amica” e altri concorsi minori.
E’ stato per due volte finalista al “Mystfest – Gran Giallo Città di Cattolica”.
Con il romanzo horror Vieni da me ha ottenuto una segnalazione al XXIII Premio Calvino.
Nel 2012, con il romanzo A viso coperto, ha vinto il XXV Premio Calvino.

5 Risposte a “Come gocce nel mare”


  1. 1 Riccardo Gazzaniga Mag 20th, 2012 at 10:52 am

    Grazie del post, l’ho condiviso sul mio sito.
    Spero che ai lettori piaccia questo racconto. Personalmente ci sono molto affezionato.

    Riccardo

  2. 2 Antonio Maddamma Mag 20th, 2012 at 11:04 am

    Grazie a te per il racconto. E in bocca al lupo per il futuro di “A viso coperto”!

  3. 3 Giacomo Verri Lug 20th, 2012 at 11:30 pm

    Nel 2013, “A viso coperto”, romanzo con cui Riccardo Gazzaniga ha vinto il Calvino 2012, sarà un libro Einaudi Stile Libero
    http://www.wuz.it/articolo-libri/7137/premio-calvino-2012-finalisti-pubblicati-libri.html

  1. 1 Il racconto “Come gocce nel mare” disponibile on line. | | Riccardo GazzanigaRiccardo Gazzaniga Pingback su Mag 20th, 2012 at 10:44 am
  2. 2 Il vincitore del XXV Premio Calvino Riccardo Gazzaniga a Senigallia at LibriSenzaCarta Pingback su Feb 8th, 2014 at 6:43 am

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