Milk and honey to Santiago
di Sara Moneta Caglio
XII.
Imparare a leggere i segni
Erano proprio i primi giorni di cammino. C’era tutto da scoprire.
L’entusiasmo e la frenesia di scartare il sentiero anticipava l’allarme di una sveglia che ululava meccanica contro i ritmi naturali di quella veglia che avrebbe poi imparato a regolarsi da sola.
Alle cinque c’era ancora il buio della notte che nascondeva le ombre del bosco, nelle sue fitte trame, che silenziose raccoglievano le storie di noi passanti.
Di lì a poco la luce sarebbe filtrata tra gli alberi e avrebbe avuto il sopravvento. Questione di un momento.
Una donna che incontrai mi raccontò di una tradizione andina.
“L’alba è il momento che Dio si avvicina alla terra. Lui che subito dopo aver creato l’uomo si rende conto che, con la potenza della sua energia, non potrebbe stargli vicino; per questo ha inventato la natura, la mano più affabile che non ci avrebbe bruciato del suo potente fuoco, ma accolto e protetto”.
Ed era proprio nell’alba che Dio scendeva tra noi per darci il nutrimento dell’animo, quello che spesso trascuriamo lasciandolo soffrire di fame e di sete.
A destra un arcobaleno si dilatava sopra la montagna. Ci indicava la via. Un sole tenue e infuocato filtrava i suoi raggi come spade fra le nuvole e trafiggeva la perfezione del loro incastro disegnando come degli strati di coscienza.
Dietro a quelle nuvole, a guardar bene, si potevano scorgere dei volti. Si poteva decidere chi essi fossero. E se si guardava bene non ci si poteva ingannare.
Io avevo intravisto lui, quel ragazzo, contornato da una luce azzurra celestiale.
Le mie gambe erano più forti ora che sapevano che esisteva davvero un passaggio. Una porta per arrivare alla conoscenza della nostra natura.
“Sai, dopo aver deciso che avrei chiuso tutte le porte del cuore agli uomini, mi accorsi che quella non era la soluzione, ma una violazione. È stato in quel momento che ho conosciuto un uomo. Non grande, non bravo. Buono”.
Mi diceva che non si può trovare pace dal passato se non allontanandolo nella sua accettazione e accogliendo il presente che sta bussando.
Proprio in quel momento pensai ancora a lui. A quel ragazzo. Per un solo istante.
Non immaginavo che quel pomeriggio l’avrei rincontrato, in quella casa dove avevo deciso di dormire.
Una casa che non sceglievano in molti perchè il cammino segnalato sui libri si arrestava cinque chilometri prima, in città , a Pamplona. Ma io avevo voglia di immergermi nella tranquillità della natura. Poco fuori dal centro. Cinque chilometri, a volte, possono essere incisivi per cambiare un destino.
Che, in realtà , ci siamo andati a scegliere, lasciando spazio alle nostre inclinazioni.
Io cercavo la natura, sempre, e lui aveva fatto la stessa scelta.
Così chiaro, alto, magro, elegante in quelle sue vesti semplici, portava tra le mani il fardello di un libro massiccio e camminava come danzasse in un giardino.
La stanchezza non scomponeva nei gesti, un portamento deciso sosteneva i suoi occhi e li portava più vicini al cielo. Ed fu proprio lì, su quel prato inglese, che mi avvicinò con un sorriso perchè aveva sentito la mia lingua, lui che l’ amava tanto e voleva provare a impararla, conversando con una vera italiana.
“Ho fatto qualche lezione di italiano a Manchester, ma non lo parlo quasi mai. Sono Samuel”, si presentò.
Il suo inglese era così serrato, così veloce, così difficile da intendere.
Soprattutto per me che avevo studiato francese e l’inglese lo farfugliavo appena dopo averlo imparato raffazzonandolo nei miei viaggi in giro per il mondo.
Mi intimidiva pensare di doverlo affrontare. Ero frenata dalla paura di commettere mille errori.
Quanti limiti ci impongono le paure! Quante porte ci chiudono se non le affrontiamo! Quante opportunità scivolano via nei nostri timori!
Ma lì eravamo sul cammino e, presto, non avrei più avuto paura.
Perchè lì esisteva un senso di appartenenza a una grande famiglia, che si alimentava e cresceva giorno dopo giorno.
Non c’era spazio per frenarsi. Non c’era tempo per imbarazzarsi. Tutto avveniva nella più totale naturalezza. E così era normale anche cominciare a parlare con Samuel, che non si vergognava di osare il suo accento british in un italiano che al primo suono avevo deciso che mi piaceva.
Mi piaceva la sua voce e così provai anch’io a parlargli nella sua lingua.
“Cosa stai leggendo, Samuel”? gli chiesi.
Quel libro, quello che teneva stretto tra le mani, era uno dei miei romanzi preferiti.
Gli sorrisi e gli mostrai il mio libro, cercando di tradurgli la trama.
Mi disse che gli piaceva. Iniziò a parlare velocissimo e non capii più.
Ma non importava, ascoltavo sapendo dentro di me che un giorno avrei capito.
Come avrei capito che il linguaggio verbale, sul cammino, non ha nessuna rilevanza. Lì si parlava un’altra lingua comune a tutti. Frasi semplici che servivano a creare l’unione, a caricare la voglia di stare insieme.
“Posso venire a cena con te e le tue amiche?”, mi chiese educatamente. “Se non preferite essere sole”.
Arrivò la sera. C’era anche lui con noi. Aveva scelto di trascorrere del tempo con noi per introdursi nelle nostre vite e accoglierle nel suo cuore.
Quante cose si intuiscono nel silenzio. È la religione per comprendere l’essenza di un uomo.
Era così innocente nello sguardo, seduto, lì, davanti a me, in quel primo tavolo condiviso.
Così composto, così gentile, così attento. Ventun’anni. Solo ventuno ed era un uomo maturo. Non mangiava carne; era diventato vegetariano seguendo gli insegnamenti di suo fratello. Ne aveva tre di fratelli, tutti maschi.
Veniva da Newcastle, in realtà da un altro posto che per me era impossibile da capire per suo il accento del nord, da qualche parte vicina alla Scozia.
E quello era il suo secondo cammino fino a Santiago.
Il primo l’aveva percorso in inverno, due anni prima, quando voleva cominciare il suo cambiamento. La sua ricerca ora proseguiva nelle stesse tappe, sulle tracce delle sue orme passate.
Studiava letteratura.
Questo era il Samuel che conobbi quella sera.
Non sapevo nient’altro di lui, ma la sua anima mi ha raccontò ben altro.
Il suo rigore, la sua purezza, la sua bontà fecero breccia nel mio cuore che da subito decise che a questo ragazzo avrebbe dato affetto. L’affetto che volevo scambiare con uno di quelli che sentivo sarebbe diventato uno dei miei migliori compagni di viaggio.
Calò la notte e, come una visione, lui scomparve.
Dovevo chiudere gli occhi, perchè il buio potesse arrivare.
Il giorno dopo avrei scoperto se era reale.
Ripresi il mio viaggio pensando che esistono anime invisibili che compaiono sulla tua strada per ricordarti la direzione.
Sono la freccia gialla che ogni tanto spunta per dare sicurezza ai tuoi passi, alle tue gambe spesso indecise e fragili.
Continuavo a marciare seguendo il disegno di queste piccole frecce pitturate sulle rocce, sugli alberi, sulla terra. Spesso erano nascoste; a loro stavo affidando la mia vita.
Mi stavano guidando da qualche parte dove, però, non sarei arrivata subito.
Mi fidavo di loro e non mettevo in discussione la direzione che sceglievano per me.
Samuel era una freccia gialla sul mio cammino. I suoi occhi illuminavano il buio della notte come due fari in un porto. Gli occhi erano tutto ciò che si vedeva di lui. La sua figura perdeva i suoi contorni nella luce. Era difficile non essere attratti dal suo candore.
Mi aveva detto che veniva dall’Inghilterra, ma da subito pensai che il suo mondo fosse un altro.
Galleggiava a metà tra questo mondo e un altro. Sembrava irraggiungibile. Bisognava esercitarsi per salire fino al suo gradino senza ritrovarsi in apnea, con il fiato corto.
(Milk and Honey to Santiago, capitolo XII, continua nel capitolo XIII)
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