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Andrea Zanzotto, poeta del postmoderno, fra la lentenza degli anni e la velocità dei neutrini

Compie oggi novant’anni quello che Gianfranco Contini definì il più grande poeta italiano nato nel Novecento. Se fra novecentismo e antinovecentismo c’è stata la possibilità di una terza via, se c’è stata una terza via, allora questa è stata, ed è, quella di Andrea Zanzotto. Sembrano così lontane quelle polemiche, sono davvero lontane in questo scorcio di Terzo Millennio, nel quale, non solo per ragioni cronologiche, non ha più senso parlare di poesia novecentista e antinovecentista. E non ha più senso almeno da quarant’anni. Se c’è stato nel secolo scorso un grande iato nella poesia italiana è stato nel decennio del post-boom economico, quello che per l’Italia segnò la fine di un’epoca storica e insieme quella di un’era dell’umanità: il tramonto della cultura contadina, ed insieme dell’umanesimo, che cede il passo all’alba di quella tecnocratica. Di questo dopostoria al quale per privilegio d’anagrafe oggi assai pochi sussistono Andrea Zanzotto è stato, ed è, un testimone d’eccezione. In questo dopostoria  (oggi diremmo del postmoderno) dove sono due preistorie a convivere, quella degli ultimi contadini e quella del neocapitalismo, il poeta di Pieve di Soligo ci ha insegnato come si potesse guardare ad entrambe con lucido strabismo poetico. Due temi gli si presentano da subito fondamentali e legati fra loro: quello del linguaggio e quello della natura.  Da La Beltà (1968), a Pasque (1973), alla trilogia composta da Il galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986) la ricerca linguistica è centrale nella sua poetica.  Lingua infantile, dialetto veneto, arcaismi, neologismi, inserti poliglotti, chiamati a farsi paesaggio nello spaesamento linguistico della globalizzazione. Ed insieme al linguaggio il tema della natura. Natura non più vergine, come nelle prime raccolte, ma contaminata e infetta, come in Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009),  paesaggio da potersi dire con un io frantumato, come in IX Ecloghe (1962), di cui essa è significante, ma non più significato. E’ nel restituire voce a questo “non-più” che l’ultima lezione di Zanzotto si fa altissima. Fra memoria animata (chissà per quanto ancora) dagli affetti e ironia, sentimento non ancora scaduto. Nessuna meraviglia per me che tu sia convinto che in “quest’epoca rotta e maledetta” ci sia ancora spazio per la poesia. E che più della lentezza dei tuoi anni ti attirino “i neutruni più veloci della luce”. Auguri maestro.

Andrea Zanzotto e il “Quartiere del Piave” (dalla trasmissione Rai Edu 2 “io e…”)

Un ritratto di Andrea Zanzotto su Scrittori per un Anno

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