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Quanto sono lontani gli anni di piombo

Quanto sono lontani gli anni di piombo

di Giacomo Verri

Belli o brutti che fossero, gli anni di piombo sono passati alla storia per la loro carica di violenza, per le intestine lotte tra fazioni opposte di gruppi extraparlamentari, di organizzazioni armate di destra e di sinistra; anzi, di estrema destra e di estrema sinistra. Oggi quel piombo, quegli anni sono così remoti e nel tempo e nelle coscienze che leggere Arrivano i NAM (breve pezzo d’ambientazione milanese, settimo degli ‘Inediti d’autore’ mandato fuori dal «Corriere della sera»  il 23 giugno scorso) di Piero Colaprico è davvero un modo per essere riportati, almeno con un piede, in quell’atmosfera. Dico con un sol piede poiché la cifra del racconto è quella della distanza temporale che ha davvero aperto, tra passato e presente, un varco insormontabile e in mezzo vi ha posto un grumo di nostalgia (senza che di quei tempi il racconto di Colaprico faccia improponibili apologie): allora c’erano i NAR di Fioravanti, i NAP, le BR, i Comitati, i Collettivi, le Formazioni, e tutte queste cose vengono fuori dalle parole dei personaggi; ma il presente è davvero un’altra faccenda. Questi NAM (sull’acronimo faranno luce solo le ultime pagine del libretto) sono ex terroristi, ex picchiatori, fascisti e comunisti, che finiscono per agire di conserva – è questa la grande e sorprendente trovata di Colaprico – poiché delle fanatiche ideologie che li avevano sostenuti negli anni Settanta non è rimasto più nulla. Nulla per cui valga la pena di marcare ancora le differenze. E dire che in quegli anni i divari erano così micidialmente antitetici da essere spesso pagati con la pelle.

Adesso, invece, i protagonisti di Arrivano i NAM la pelle la fanno a un marocchino che sgarra perché si è rivolto in maniera sgarbata alla nipote di un ex-nappista, a chi ha pisciato su una serranda, a un cinese sfruttatore, e via dicendo. Questi uomini con le mani armate sono ormai dei nonni con la nostalgia per quegli anni Settanta, e di quegli anni portano sulla pelle un brivido che fa loro ricordare come fosse elettrizzante agire per cambiare il mondo, per migliorarlo. Se non che adesso di cause politiche non ce ne sono più, ma i pretesti per le loro azioni son tutti ricondotti a faccende personali, intorno alle quali è possibile unire in un unico gruppo rossi e neri. Sbalorditiva intuizione, questa di Colaprico, che, se a una prima lettura spiazza (poiché è davvero difficile immaginare uomini di tendenze così opposte prendersi a braccetto), in seguito mette sotto agli occhi come questa soluzione altro non sia che la metafora dei tempi. Viviamo o no in un’epoca ‘post’? Postmoderna, postindustriale, postnaturale, postarchitettonica, postpolitica? Ognuna di queste ‘posteriorità’ è vissuta, a seconda degli ambiti, in maniera cosciente o in maniera incosciente: la letteratura postmoderna, a esempio, è così tanto consapevole di essere una letteratura che viene ‘dopo’ qualcosa d’altro da prendere quel qualcosa d’altro come modello, seppur trattato in maniera ironica. Ma questo ‘dopo’ resta, a livello culturale medio, un’entità dai contorni indefiniti (provate a chiedere agli ultimi maturandi cosa fossero NAR e NAP, sebbene una delle tracce dei temi di maturità richiedesse proprio di riflettere sugli anni di piombo). Allora questi NAM – che pur sanno bene come fosse il ‘pre’, il passato di cui hanno una nostalgia pazzesca – sono figli del nostro tempo dacché confondono, o meglio non vogliono più distinguere e distinguersi, avere una fede, una ideologia (con qualche bella e ossimorica eccezione: Ettorino, a esempio, un ex-rosso, difende da avvocato le aziende di Berlusconi, ma gratuitamente continua a sostenere le cause dei centri sociali); la Milano che vivono adesso non è più quella di un tempo, dove le sfere di influenza erano chiare, San Babila era nera, piazza Santo Stefano rossa; i pestaggi che fanno ora non hanno un colore politico, ma sono “mera difesa del territorio”; l’intero apparato categoriale dei Settanta non solo è risemantizzato, ma desemantizzato; l’Io protagonista dice: “Non era territorio quando curavamo le facce e gli abiti, e chi aveva le scarpe a punta era fascio, chi le Clarks era rosso […]. Al Leonardo da Vinci ci stavamo noi con le spranghe, all’Itis sai il cazzo loro con i cacciaviti, insomma ci sorvegliavamo, ci pestavamo, ci uccidevamo, eppure in mezzo ai fiumi di sangue, soffiando sulla nebbia dei lacrimogeni, sognavamo un mondo nuovo”. Il loro ritrovarsi a quarant’anni di distanza ha il sapore del remake di un film, in cui lo stacco fra rossi e neri non fa più differenza, poiché a questi NAM, voltatisi in generici giustizieri, è rimasto solo quel lontano senso di ricerca di un mondo migliore (in questo non troppo dissimili dagli eroi dei feuilleton); come tutti i remake ha perduto il sapore originale perché, sebbene i colori siano più nitidi, le parole meglio scandite, le musiche più efficaci, gli effetti più speciali, la magia, ciononostante, è sparita. Non che il libro di Colaprico faccia questo effetto: assolutamente no. È davvero un bel racconto, un racconto sulla gioventù vista dalla maturità, ma soprattutto un racconto che ci dice come siamo oggi: non dei disinteressati a tutto tondo, ma degli uomini senza ideali – per quanto gli ideali che avevano sostanziato gli anni di piombo fossero il segno della fine delle ideologie e della degenerazione degli istituti democratici –, degli uomini senza troppe speranze per il futuro, senza una profonda considerazione del passato. Si legge tra le ultime pagine: “Grazie a una serie di tappe forzate, che io vedo passare tra l’omicidio per mano delle Brigate rosse di Aldo Moro (Brigate rosse infiltrate dallo Stato) e l’omicidio del generale Dalla Chiesa per mano della mafia (fiancheggiata da altri pezzi di Stato e pezzi di merda vari), lo Stato ha vinto e i giovani hanno perso”. Resta allora da chiedersi: ma dove siamo finiti?

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