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Il passo lento dell’acqua

Pubblichiamo due poesie di Gianluca D’Annibali tratte dall’antologia “Giovani Poeti Leggono… Carlo Antognini”, edita da peQuod.

Il laboratorio per D’Annibali ha registrato un continuo crescendo che gli ha permesso di acquisire ulteriore coscienza delle proprie qualità espressive. Nutritosi di letture dei ‘patriarchi’ e dei classici del Novecento, Ginaluca (sempre presente agli incontri eppure veniva dalla sua Porto Sant’Elpidio) ha fatto sua la lezione dei maestri mettendo a fuoco poi i caratteri della sua scrittura già colma e matura.
La sua poesia si addensa di senso, di esperienza esistenziale, di ritmo monodico eppur sempre nuovo poiché cresce in intensità nei passaggi ora densi ora lievi a seconda della maggiore o minore tensione noumenica dell’autore.
Gianluca ha il respiro lungo (alla Montale o alla Luzi per intenderci) quindi non ha il fiatone che lo lascia a mezza via nel suo cantare, né la sua versificazione si lacera di tante singhiozzature tipiche del neofita. Ha la voce sicura e la materia profonda del canto recitato quasi a retto tono. La materia del suo canto? Può cantare tutto e soprattutto il coraggio di vivere e anche le sconfitte.
(Fabio Maria Serpilli)

Il poeta soldato

La notte è senza fiato sul crine delle onde,
sospetta della fame che assolve gli affamati;

la notte è quasi un premio, è una lancetta
spezzata nel cassetto
di un vecchio orologiaio.

Ed io, nel segno d’un sospetto,
nel sogno di un abbaglio,
rappreso nel disegno
di questo ginepraio,
con fare da innocente
cosciente come un incubo m’appaio:

col mio carico addosso di letteratura
che mi pesa come un mitra sulle spalle,
con questo armamento da soldato
per proteggermi dai versi del nemico…..

…….che scrivere era un punto di domanda,
sparare è soltanto esclamazione;
per me trovar risposte è domandare,
ma io non so più chiedere
da quando so ammazzare.

Ma tu non sai, tu non puoi sapere
che fame m’avvince e mi colora,
vorrei spiegarti il fuoco del mio sesso,
narrarti queste morti che ho vegliato,
cantarti con parole avvelenate
il canto dei miei giorni: un sibilare.

L’abbiamo violentato questo mare
sfregiato, deriso, trapuntato,
illusi di rubar verginità
a chi verginità non ha provato.

…e dal tonfo perpetuo delle onde
benigna una voce mi parla,
codardo non riesco a evitarla
(residuo salato
della mia coscienza):

” Ma non senti che vanno a braccetto
le parole soldi e soldati,
non senti che gran confidenza
tra esili e l’altra: esiliati,
non senti che buio stanotte,
non senti che nero silenzio….? ”

No,
non riesco, non riesco, non penso…

La mia ragione è
ragione di poeta
e della mia ragione
i sensi hanno bruciato,
ed ora
dinanzi all’ascesa lasciva,
alla morte, al male che incede,
la mia ragione sensitiva
sa contar soltanto
sino a dove vede.


…e penso a noi a cent’anni quando avremo…

…e penso a noi a cent’anni quando avremo
talpe negli occhi
e vino bianco in bilico
tra l’ aorta e il rosso
rubino del cuore;

penso al nostro sperpero di astri,
alle puntate di sangue
sui numeri migliori,
allo zero che non esce,
alla ruota che cerca
una combinazione
elegante di nero:

una cravatta da appendere al petto
nei giorni senza vertebre
del nostro calendario.

Penso a quando avremo acqua
da masticare a cena,
bestemmie di traverso
sulle trachee increspate
come pioggia d’aprile che lava
la ruggine delle grondaie;

….ma in questo istante, Madre,
in te mi penso,
nell’evaporare della tua
ombra al ritmo dei miei passi,
nell’essere uniti, vincolati
nella nostra fioritura
di canne di bambù.

 

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