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Creazioni comuni

La proprietà intellettuale è quanto di più privato possa esistere, ma evita spesso di pagare le esternalità, ossia le componenti che utilizza, che appartengono al mondo. Senza la varietà delle parole quotidiane, senza una creatività collettiva, senza una fede che resiste malgrado tutto, l’invenzione sarebbe come un seme nella terra secca.
Creative Commons mi pare una bell’aggiogamento che tende a equiparare la creatività ai commons, ai beni comuni, esattamente come è del mare e dell’atmosfera, i quali sono stati detti, appunto, beni comuni.

Di questi elementi aristotelici primordiali parliamo in termini di commons per due motivi: che sono vitali e che non sono vendibili. Vedete che per l’acqua dolce, che è più vendibile, c’è più difficoltà nel dichiararla “common”. La creatività, immaginata come fluido immateriale, può essere rinchiusa in un prodotto, sia esso un libro, un quadro, un oggetto d’uso, e sottoposta (imposta) al gradimento del mercato. Come detto, però, paga i diritti all’autore ma non il dazio dovuto all’esternalità, alla varietà del mondo.
La creatività che passa attraverso gli oggetti culturali è come l’acqua imbottigliata, che irrora poco o niente. La creatività irradiata come bene comune è acqua che torna ai suoi alvei, ai suoi pendii, ai suoi percorsi sotterranei.

Nel mondo che stiamo preparando l’artista sarà liberato dall’obbligo di avere successo. La sua essenza sarà dissipata nell’aria o nell’oceano delle parole. Si combinerà in luoghi e composti non immaginabili, e troverà corrispondenze sorprendenti. Niente più bohème, forse, niente più gelide manine. Bar Camp. Miliardi di profeti. Miliardi di lucciole che pulsano contemporaneamente.

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