Nel numero di marzo 2007 di AD, Architectural Digest, edizione italiana della rivista di arredamento, design e architettura più prestigiosa al mondo, è presentata la casa bolognese di Gaetano Navarra come uscita dalla matita di Vera Fraboni. L’articolo, intitolato “La finestra sul cortileâ€, porta un testo (di Cesare Cunaccia) lusinghiero verso le qualità dell’opera, e le illustrazioni (di Massimo Listri) non mancano di accompagnare la visita con indubbia perspicacia. Il sottotitolo spiega anche meglio: “La vista attraverso un oblò crea continuità prospettica in una residenza bologneseâ€. La circostanza è favorevole per fare quattro chiacchiere con l’architetto, della quale mi onora l’amicizia.
Possiamo dunque cominciare dall’oblò. Veramente se penso a un oblò immagino un finestrino piccolo e tondo, a una chiusura stagna, a una soglia soltanto visiva da un luogo chiuso verso uno aperto. Il finestrone che sfonda il corridoio invece non ha niente dello spazio costretto attraverso la quale si guardi il resto del mondo come di soppiatto.
L’oblò come inizio mi sembra appropriato. Laggiù vediamo il molo, un edificio a fasce bianche e nere e una fila di finestre fatte a oblò. Ricordano gli oblò delle navi. Ma chiamiamolo pure “cerchioâ€, se oblò non ti convince. Il cerchio è la forma perfetta. Un grande cerchio non esclude nessuno. Puoi pensare a una tavola rotonda: non c’è il capotavola. Il cerchio è la forma del colloquio e della convivialità .
Un oblò, oppure “un cerchio†è un motivo per me ricorrente perché innanzitutto mi piacciono le forme morbide. Nella mia architettura cerco sempre di correlare l’esterno con l’interno e l’interno con l’esterno. Nella casa Navarra, dove si trattava di collegare due appartamenti separati da un corridoio stretto, si rischiava di aprire la porta e di trovarsi in faccia a un muro. Quale miglior cosa che aprire una grandissima finesta con vista su questo cavedio? Chi entra viene distratto dalla profondità visiva di questo grande cerchio di due metri e dieci di diametro e non si accorge di trovarsi lungo un corridoio.
La rivista lo presenta come elemento centrale, come fulcro del progetto.
È in effetti l’elemento centrale, l’idea-cardine del progetto. I due appartamenti, quello dedicato alla zona notte che dà su via del Limbo, che risale al Seicento, e l’altro più recente che invece dà su via Rizzoli ed è dedicato alla zona giorno, sono collegati da questo corridoio stretto; dunque l’oblò diventa il punto centrale dell’intervento con lo scopo di “collegare dando profondità â€. Non si doveva assolutamente percepire questa strozzatura. Tutto il resto è venuto di conseguenza. D’altronde un buon progetto ruota in genere attorno a un’idea di base; tutto il resto è complemento.
Come è nata questa idea in te, e in che momento si è materializzata?
È stata immediata. Il progetto è sempre fatto di intuizioni: ci si fotografa immediatamente quello che sarà il risultato finale. La capacità sta tutta nel saper vedere quello che c’è, e immaginare quello che ci sarà . Intorno a quell’idea si lavora, si verifica se funziona e resta valida anche dopo tempo come idea di progetto; poi vanno verificate la fattibilità tecnica e tante altre cose. Il progetto non è una costruzione: è semplicemente la risposta a una sensazione. Entrando in quella casa mi sentivo soffocare. Ho avvertito la necessità di aprire e di far entrare aria, luce, dare profondità . Dove c’era un muro sentivo il bisogno di sfondare.
E come la si spiega al committente?
Come la dico a te. La sensazione che ho provato entrando, i proprietari dovevano conoscerla. A volte però ci si accorge di una costrizione nel momento in cui se ne intuisce una possibile uscita. Allora si tratta di aprire loro gli occhi e invitarli a comprendere cosa si potrebbe fare per convertirla nel suo opposto.
La storia ci ha consegnato la memoria di tanti conflitti tra artista e committente. Non c‘è a volte incomprensione?
Sì, questi conflitti ci sono sempre. Però non è il caso dei Navarra, che sono operatori nel campo della moda e hanno consuetudine con questi linguaggi: ci capiamo al volo. Mi ricordo che ho presentato poco più di uno scarabocchio – eravamo sulla terrazza di un albergo a Riccione un sabato sera – e l’idea di una risposta a questa sensazione di soffocamento, unita a una definizione… Quando m’hanno chiesto: “ma tu come definiresti questa casa?†ho risposto: “Beh, per definire questa casa io userei un linguaggio di chic metropolitano. Quindi non lo chic di chi vuole rappresentarsi, ma di persone che sanno vivere con disinvoltura, non hanno bisogno di nascondere certe imperfezioni della casa, sanno mescolare le cose che amano di più, siano esse antiche o moderne, il tutto su una base di un monocromatismo.
Come convive l’antico con l’oblò?
Benissimo.
Hai verniciato di bianco i travoni del Seicento.
Ma sì, perché erano pesanti, soffocanti; immagina tu, vederli dal letto sopra la testa, scuri, incombenti. Si è trattato di neutralizzare tutto, le travi antiche e quelle moderne, le pareti. Se il progetto ruota intorno a un’idea valida tutto il resto diventa complementare; non possono convivere tante cose importanti che competono tra loro. Vico Magistretti sosteneva che quando in un progetto ci sono tanti particolari decorativi, costruttivi, si rischia che non venga più letta l’idea-madre, perché l’occhio si perde su troppi particolari non necessari.
Questo tu chiami “il linguaggioâ€.
Piuttosto questo è il mio modo di procedere, che ho definito “intuitivoâ€. Infatti anche il fotografo di AD, che io ho accompagnato, appena è entrato in casa ha letto esattamente l’idea. Io non ho messo bocca sul lavoro suo: gli ho soltanto spiegato cosa avevo fatto e lui, attraverso le fotografie, è riuscito a illustrare il progetto per quello che veramente era. Il linguaggio è un’altra cosa. Attraverso l’elaborazione del proprio pensiero, del proprio magazzino di immagini certe cose si rielaborano; ad esempio trattare una superficie lignea; il tipo di maniglia di una porta, il tipo di rubinetteria, i colori, la soluzione che si adotta e l’atmosfera che poi si respira sono cose che si ripetono di progetto in progetto e diventano ciò che rende riconoscibile il progetto come mio.
Questo linguaggio è compreso da tutti? È italiano? È internazionale? O è architettese e lo capiscono solo gli architetti?
È un linguaggio internazionale, che non ha barriere; e in genere viene compreso nel suo significato. Ne ho avuto conferma da clienti che non vedevo più da tempo ma che hanno avuto modo di vedere un mio lavoro casualmente e l’hanno riconosciuto.
Gli architetti di oggi sono spesso ossessionati dall’idea di dover lasciare un segno.
Sì, hanno questa ossessione maniacale di lasciare una traccia nella storia. L’ossessione provinciale di non essere notati.
Esiste comunque un grand-tour dei tui lavori. Tracciamo una mappa dei luoghi e dei segni…
Sì, certo che esiste. A parte l’Italia, dove l’asse è sicuramente Milano – Bologna – Senigallia, dove vivo. Ho lavorato molto in Puglia e ad Alghero; e poi il negozio Armani a Bruxelles, la fabbrica di Marithé e François Girbaud a Mazamet in Francia: sì, la mappa è abbastanza ampia e piuttosto variegata; e poi mi rendo conto che dopo ventisette anni certi lavori neanche me li ricordo più. Sì, in dieci tappe si ritroverebbero le cose più rappresentative.
E diacronicamente, riconosci nel tuo lavoro la traccia di una progressione, di una evoluzione, di rinnegamenti o rotture, o cosa?
Ci sono lavori a Senigallia, eseguiti diciotto anni fa, il negozio Quarta Strada di Gloriana Gregorini per esempio, che è tuttora validissimo ed è un lavoro che anche a volerlo rifare non si potrebbe meglio. A livello di linguaggio, l’uso di questo armadio destrutturato, la parete in pietra rosa che si apre e diventa portamaglieria, il pavimento…
Tu lavori di preferenza sugli interni…
Gli interni perché ho avuto probabilmente più committenza in quello.
Questo permette di eludere l’impegno che, secondo Benevolo, l’architetto dovrebbe avere, di essere prima di tutto urbanista?
Io sinceramente di urbanistica capisco poco; per il semplice motivo che non mi affascina, non ne voglio capire, e molto probabilmente perché negli anni di Architettura a Venezia, in cui io veramente pensavo di fare progettazione architettonica, di urbanistica intesa come sociologia, di mutamenti sociali, politici, economici ho tanto sentito parlare, e ho sentito dire tante cose velleitarie da non volerne più sentire per un pezzo.
Pensiamo però alla persistenza di esempi enormi, che fanno la storia della letteratura urbanistica italiana: pensiamo, non so, a Pienza, a Villa Farnese a Caprarola, al Campidoglio: non solo architettura, ma anche organizzazione dello spazio urbano.
Anche l’EUR dal punto di vista dell’urbanistica è notevole. Ma da allora non si è più costruito con quegli spazi così scanditi tra una costruzione e l’altra, i percorsi, le piazze; e tuttora questo quartiere metafisico, dechirichiano, pur con i suoi difetti, mostra tuttora il suo valore. Cosa che non direi per altri quartieri, come il Gallaratese a Milano, fatto da Aymonino, o altri quartieri, per esempio di Terni. L’EUR ha una prospettiva e una sua logica: rispetto al sole…
I critici lamentano il provincialismo italiano e gli architetti italiani escono con manifesti di sapere francamente autarchico.
Non amo il corporativismo nessun campo; non vedo nemmeno la ragione di costrastare i progetti stranieri in Italia: ce ne sono troppo pochi, anzi. Pensa alla Francia, che invece si è aperta al mondo da questo punto di vista. Mentre a Parigi si faceva il Beaubourg a Londra Rogers faceva i Lloyd; ma qui risaliamo a trent’anni fa. Da noi c’è un conservatorismo bieco. Adesso pare che si sta movendo qualcosa…
Dove vedi segni di risveglio? La Fiera di Milano?
La Fiera di Milano di Fucsas, l’Auditorium di Renzo Piano a Roma: si incomincia, ma non c’è ancora slancio e il conservatorismo resta…
E da noi che abitiamo sulla costa adriatica?
L’unica cosa secondo me molto bella, molto corretta, è la fabbrica di Diego Della Valle a Casette d’Ete progettata da Piano. Architettura minimale, dà una bella sensazione di serenità non solo per chi la vede ma anche, io penso, per chi ci lavora.
Come immagini il futuro? Qual’è la scena nella quale ti piacerebbe muoverti?
Io ho sempre avuto il desiderio di progettare una chiesa, pur non essendo credente. La creazione di un luogo dove si possa respirare la spiritualità , quel tipo di religiosità privata che io credo solo una persona libera da vincoli di appartenenza religiosa possa progettare.
La chiesa di Michelucci a Firenze ha questo carattere?
Lì siamo già alla scelta di un linguaggio architettonico che voleva rompere col passato, quindi questo svettare verso il cielo, ma contemporaneamente un senso di movimento e un tetto molto pesante da vedersi, quasi una coperta; una cosa che da dentro si percepisce. Io penso più alla Cappella di Le Corbusier a Rochamp, molto più intima e spirituale. Il futuro dell’architettura secondo me è aperto a tantissimi linguaggi diversi, innovativi…
Non si corre il rischio dell’uniformità come in altri campi del presente globalizzato?
Penso di no. Penso che il rischio sia piuttosto l’imitazione.
Appunto. Vorresti fare l’architetto in Africa? Per dire in un luogo dive i modelli abitativi potrebbero orientare in modo decisivo la progettazione verso esiti che non ignorano il villaggio…
Lo farei dovunque, non è questo un problema. Insediarsi, capire, tranquillamente. Il problema dell’architettura oggi – lo ripeto – è quello del fac-simile.
Un prodotto senza invenzione…
Un prodotto formato da tanti elementi presi a prestito a destra e a manca.
È il nostro panorama quotidiano…
Eh, sì. Senza contare poi l’architettura orrenda di tante nuovissime costruzioni.
Architettura vs. edilizia. La gran quantità di costruzioni che tu vedi sono un’antitesi di quello che dici.
È vero. L’architettura – e qui torniamo indirettamente all’urbanistica – subisce ibridazioni a causa di scelte non chiare riguardanti le scelte volumetriche e la loro distribuzione sulla mappa. Come quando in una casa si hanno tanti quadri da appendere: meglio non sparpagliarli qua e là : i quadri devono dialogare tra di loro; quindi è meglio creare episodi: avere magari una parete completamente piena per averne una totalmente vuota. Se l’occhio ha bisogno di vedere, sa dove rivolgersi. Noi invece stiamo riempiendo il territorio di episodi brutti, sgradevoli, male organizzati, mal serviti, dove la gente prima o poi si troverà ad avere un mega… delle città dormitorio totali.
Viviamo immersi in un mare di immagini galleggianti…
… di brutte immagini, un mar dei Sargassi…
… e di ridondanze. Dove una volta si cercava di contrapporre pieno a vuoto…
Il rovesciamento potrà avvenire se ci saranno persone con adeguati strumenti decisionali…
Sobrietà , linearità , correttezza, essenzialità sono limiti o virtù?
Sono virtù. Io la penso così perché credo di esprimermi attraverso un linguaggio sicuramente minimale – non il minimalismo giapponese ma uno europeo, international-style; il problema però è questo: fino a quando noi avremo una qualità culturale dei governanti, di chi deve assumersi la responsabilità di decisioni anche impopolari (come hanno fatto i presidenti della Repubblica francese Pompidou e Mittérand sfidando l’impopolarità al Beauborug, alla Grande Arche, alla Bibliothèque Nationale, alla Pyramide, e il tempo ha dato loro ragione), non cambierà niente. Se non cambia il sistema decisionale politico e se non avremo persone colte e capaci di fare queste scelte avremo sempre una qualità di architettura scadente. Il problema non è che scegliere architetture minimali vada bene e altre no: in un grande spazio, l’Italia, dove esiste tanta architettura bellissima, ancora più bello sarebbe che questa architettura convivesse coi grandi linguaggi internazionali, da un minimalismo di Tadao Ando a una Zeudi Hadid che svetta verso forme neoplastiche e, perché no, anche verso architetture che siano la testimonianza della rielaborazione dei grandi linguaggi a livello mondiale. Una cosa non esclude l’altra: quando l’opera è bella ti fa sentire bene, e questo è la conferma che quell’opera ha valore. Come di fronte a un grande dipinto, a una grande scultura, o a una bella giornata di mare come questa, senti che ti fa stare bene, allora vuol dire che l’architetto ha fatto centro, ha creato una cosa bella che coincide con il benessere di chi ne fruisce. Anche se sono sempre le persone sanno capire perché la cosa fa loro provare benessere.
All’inizio dell’Ottocento la romantica Mme de Staël criticava l’attaccamento degli italiani al classicismo, ritenendolo conservatore…
… Aveva ragione, perché noi siamo rimasti conservatori. Abbiamo la classe politica più conservatrice e più vecchia d’Europa, la meno innovativa, zavorrata, ancorata sul passato; una classe politica che ha paura di rinnovarsi, di guardare in alto, o in avanti. La Spagna, uscita dal franchismo negli anni ottanta, in trent’anni ci ha superato alla grande da ogni punto di vista: infrastrutturale, architettonico, civile… Io conosco tanti italiani che sono andati a vivere in Spagna.
Forse è vero che le generazioni innovative nascono dal ferro e dal fuoco; e che la libertà nasce dalla liberazione. La prima generazione di italiani dopo la fine del fascismo e della guerra mondiale era formidabile, piena di fede e di volontà che le generazioni successive sono andate progressivamente perdendo.
Viviamo, ma siamo addormentati: non ci sentiamo prigionieri perché a tutti è stato garantito un piccolo orticello di libertà ; e dunque non prendiamo consapevolezza, ma la nostra è una libertà vigilata, tenuta alla catena.
Come potremmo uscire da questo torpore?
Non sarà certo questa nostra chiacchierata che cambierà il mondo; ma non posso nemmeno pensare che non serva a niente. La consapevolezza della necessità di un cambiamento ci renderà insopportabile questo presente. Sarà come guardare da un oblò dopo avere sfondato una parete. A quel punto il cambiamento sarà pura conseguenza.
Grazie, Vera.
..intervista pregna di significati…la verve polemica sull’urbanistica mi ha molto colpito..in fondo è cosi’ pero’…
complimenti..e buon lavoro
chiediamo cortesemente di essere contattati dall’architetto Vera fraboni
Grazie
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