Milk and honey to Santiago
di Sara Moneta Caglio
XXII.
Ma è subito domani
Domani era il giorno del risveglio e della realtà che avrebbe avuto il sopravvento sul sogno e su tutte le visioni dei giorni passati, il giorno in cui Gianmaria sarebbe arrivato in Spagna, il giorno che non avrei mai voluto arrivasse a svegliarmi da quella dolce quiete, il giorno in cui Samuel ed io avremmo dovuto separarci dal quel legame che ci univa, senza lasciare angoli stropicciati. Certamente potevamo continuare insieme, ma senza quella naturalezza che ci accompagnava da tutto quel lungo viaggio.
Come facevamo, poi, a dimenticare quel bacio?
C’era una strana sensazione nell’aria.
Era la prima mattina che sentivamo pesarci addosso una stanchezza che prima non ci aveva mai toccato.
Dopo pochi passi avevamo bisogno di riposo, di sostare sotto qualche ombra di cespuglio refrigerante.
La realtà era che non volevamo arrivare, non volevamo arrivare a doverci separare. Dentro di noi era troppo difficile da accettare e così ogni pretesto era buono per ritardare quel momento.
“Lo sai, Samuel, che nulla cambierà nel nostro rapporto, arriveremo alla fine di questo viaggio insieme”, cercavo di spiegare a lui che aveva spento i suoi occhi e deciso di rattristarsi così rapidamente.
“Sara, va bene così, qualsiasi cosa capiti c’è stato quel momento” , mi rispose senza essere troppo convinto.
E quel momento sapevo che avrebbe cambiato tutto, anche se non sapevo come affrontare la situazione, quali passi muovere per primi.
Dopo tutto quel camminare, la cosa buffa era che dovevo ancora imparare a muovere i passi, nel giusto sentiero, nella giusta direzione.
Quel giorno non lo dimenticheremo mai. Quel giorno era così afoso ci si era incollato addosso. Non c’era scampo di liberarsene, anche se noi volevamo soltanto che non esistesse. È stato poi che ho scoperto che, grazie a quel giorno, ci sono stati i giorni successivi e che le cose più spaventose da affrontare sono quelle che ci danno più forza e più coraggio.
Rivedere Gianmaria mi faceva un certo effetto, lui che era venuto lì per me e io che non provavo nemmeno un po’ di emozione, di entusiasmo. Io che non avevo voglia di abbracciarlo o di condividere il suo mondo, quello che lui ci teneva sempre a precisare fosse libero, ma che a me faceva sentire imprigionata nelle più pesanti catene. Lui sorrideva, ma fingeva, lui raccontava, ma taceva, taceva su di lui, per paura di poter commettere un solo errore e venire allo scoperto, allo scoperto di quel che era veramente.
Lo guardavo e pensavo: “Ma come ho fatto a permettere tutto questo? Come ho fatto ad accettare la sua compagnia, la sua intromissione?”
Io che non ero mai stata capace di dire di no, questa volta mi ero cacciata in un bel casino. Nella strada verso Santiago potevo vedere veramente, potevo avere un’immagne precisa di ogni suo comportamento, di ogni atteggiamento, di ogni pensiero. Si dimostrava così sicuro di se stesso, ma in realtà non sapeva dove aggrapparsi per venire a galla da quella sua disperazione.
Cominciai a non sopportare la sua presenza, ma non volevo essere cattiva, non volevo fargli male, non volevo rovinare le sue aspettative.
Poi, tutt’a un tratto, mi accorsi che non potevo fare a meno di essere me stessa, nella distanza che avevo preso da lui.
Samuel, intanto, guardava da lontano, anche se, in realtà , era anche troppo vicino per comprendere ogno cosa con i suoi occhi così sinceri.
Samuel stava male perchè si era innamorato veramente di me ed io, forse per paura, non lo avevo davvero capito o forse non volevo ammettere al mio cuore i miei sentimenti per lui.
Quella sera lì, a Melide, ho finito di vivere il mio paradiso e mi sono ritrovata catapultata all’inferno. Era come se fossi tornata indietro, all’inizio del cammino.
Non volevo stare così, con l’animo così pesante, a due giorni dall’arrivo, a due giorni da Santiago, a due giorni dalla vita.
Ma quando cerchi una soluzione, non trovi altro che nodi in quella matassa da sgarbugliare e ti sembra di non essere capace nemmeno di provare a farlo. Aspetti che qualche accadimento ti sia di spunto per cominciare. Così ho calmato la mia mente, l’ho liberata e le ho permesso di attendere e interpretare qualche segno da cui partire o meglio, ripartire, il giorno dopo, per la vigilia di Santiago. Il cuore era invaso da un’emozione profonda, da una forza inaspettata, da un’energia che non sapevo da dove arrivasse, dopo tutte quelle fatiche, quelle sfide affrontate a piedi nudi e con qualche peso in più sulle spalle. Ma poi sarebbe arrivata la ricompensa di tutti i sacrifici. Sentivo dentro di me che sarei stata ripagata da quel cammino intrapreso per liberarmi di tutto ciò da cui dovevo distaccarmi e per legarmi a tutto ciò che mi stava aspettando.
La mattina successiva con Gianmaria, senza Samuel e Marek, mi sentivo abbandonata, fragile, triste. Mi mancava anche quel gruppo di milanesi, incontrati soltanto nell’ultimo percorso del cammino, che avrebbero terminato l’indomani, dopo averlo spezzato in due tappe, percose nelle due estati precedenti.
Erano in quattro ed uno era sacerdote, a Sant’Ambrogio, la chiesa che frequentavo sempre a Milano. La chiesa che mi aveva sempre ammaliato, dove avevo sentito crescere quella fede che cercavo di rendere più forte. Quella fede che con il suo fascino sconosciuto, mi trascinava a cercarla, a scoprirla, ma non svestirla completamente, lasciandola in quel mistero che le appartiene. Quella fede in cui dissetarmi e nutrirmi di risposte senza voce. Don Umberto mi aveva avvicinato in quei giorni a a cercare ancora più costantemente l’unica risposta che noi tutti cerchiamo.
Don Umberto parlava poco, ma non aveva bisogno di tante parole per comunicare il suo calore. Avevamo imparato a incontrarci sul sentiero, a proteggerci e preoccuparci l’uno per l’altro e negli ultimi giorni, se non ci incontravamo, sentivamo una grande mancanza.
Quando scopri la bellezza non ne puoi più fare a meno.
Era quindi naturale che sentissi la loro distanza, anche se non ci incontravamo solo dalla notte prima, ma il tempo sul cammino, verso Santiago, non ha tempo. O è infinito o passa rapido come un treno. Per me allora si era fermato e il tempo, lontana quella mia nuova famiglia, mi sembrava eterno. Le ore erano mesi e i giorni anni: volevo raggiungerli, sentire l’importanza di quel senso di appartenenza a un gruppo, a un progetto, a un ideale, a una fede. A un credo.
Gianmaria parlava, sparlava, e io non lo ascoltavo. Camminavo con lo sguardo basso sulla terra, una terra dove volevo affondare, scomparire, per non essere lì in quel momento. Avevo il buio nello sguardo e la tristezza nell’animo. Forse perché avevo imparato a riconoscere, per la prima volta veramente, distintamente, il bene dal male.
E Gianmaria, purtroppo, nella mia storia era il male. Per la prima volta mi resi conto di tentare di avanzare lasciando lui indietro, ma più mi allontanavo, più lui si aggrappava ai miei passi, seguendo, seppur con affanno, ogni mia labile impronta.
Capii che non si sarebbe arreso facilmente a lasciarmi andare libera, a perdermi.
“Chissà come sta Samuel, chissà a che punto è, chissà se anche lui desidera tornare indietro al giorno prima, senza considerare questo presente”. Era l’unico mio pensiero, l’unico interrogativo.
Il presente, che fin ad allora era l’unico momento in cui mi ero sempre focalizzata, concentrando tutte le mie energie e dedicandogli tutte le mie risorse, era diventato un ostacolo da scavalcare.
Quello era il segno che aspettavo. Quella inadeguatezza che non volevo provare la scintilla che avrebbe incediato la mia anima. Occorreva lottare, darsi da fare per venirne fuori, perché così non volevo rimanere, perché così era una vita inautentica, piegata dai compromessi.
Avevo ancora una notte per dormirci sopra e meditare, anzi una notte per vegliare ed accogliere quel lume che avrebbe riportato la mia anima al sole, lontana dalle tenebre che incombevano per tentarla e corromperla con allettanti e ingannevoli prospettive.
Una notte, quella, che non dimenticherò mai.
(… continua a leggere ‘Milk and honey to Santiago / XXII’)
Commenti recenti