Milk and honey to Santiago
di Sara Moneta Caglio
VIII.
Allenamento
La montagna non bastava. Avrei percorso lunghe distanze. Magari in piano. Per testare la mia resistenza, la mia volontà . Per me non era solo una sfida fisica, ma un allenamento dello spirito: volevo far viaggiare la mia anima per sentieri diversi da quelli cui era abituata. Una prova di determinazione, di costanza, di privazioni rispetto a tutto ciò che era comodità e agio. Volevo provare la vita del pellegrino. Che veniva da lontano e lontano andava per un bisogno che nutriva nel cuore. Volevo comprendere il senso del sacrificio. Quello che oggi pensiamo di vivere a ogni minimo intoppo senza sapere realmente cosa significhi. Volevo purificare la mia anima per prepararla all’incontro. Volevo renderla più bella per l’occasione. Volevo addobbarla di semplicità per inondarla della luce dell’essenziale che andavo cercando.
Sembrava che tutti fossero esperti di Santiago. Sembrava che tutti ne avessero percorso almeno un tratto. Sembrava che tutti avessero vissuto l’esperienza. O forse ero io, fortunata, a calamitare tutti quelli che quel cammino l’avevano già iniziato. Quando si intraprende una scelta, si insegue una strada, ecco proprio in quel momento si attirano le situazioni, le esperienze e le persone di cui abbiamo bisogno, quelle con cui vogliamo condividere anche solo un tratto della vita. Era bello sentire entusiasmi e delusioni riguardo alla preparazione che stavo facendo. Per alcuni, ad esempio, non serviva a niente, perché chiunque è già preparato a camminare in quelle condizioni. Ma io rimanevo del mio parere e credevo che il mio allenamento, la mia organizzazione nell’affrontare quella partenza fosse solo un modo di disciplinare il mio orientamento, di predisporlo ad accogliere ciò che sarei andata a prendermi. Dal punto di vista fisico stavo bene, avevo energie da vendere e anche i muscoli mi sostenevano. Mi stavo prendendo cura del mio corpo, quasi per farne una scatola impermeabile che proteggesse la mia indole.
Anna, una mia amica abituata ai luoghi incontaminati e selvaggi, mi disse che in alcuni momenti attraversare grandi periferie di città e strade statali che si scioglievano al sole della torrida estate spagnola le avevano fatto venire voglia di rinunciare e tornare indietro. Finchè un giorno si arrese. Io la ascoltavo ed ero felice mi dicesse queste cose perché così sarei stata piu pronta ad affrontare anche i momenti meno idilliaci. Quelli dove si vorrebbe mollare tutto.
Parlando con altri mi ero fatta l’idea di un percorso dove, per mantenere un po’ silenzio, bisognava ritagliarsi spazi preziosi all’interno di orari che appartenevano a pochi. Alzarsi all’alba, la mattina, sicuramente sarebbe stata la maniera migliore per mantenere il contatto diretto con me stessa. Con un lato del cammino che non volevo trascurare. Quello dei passi fatti senza pensare. Senza parlare. Senza incontri. Senza competizione e senza prestazioni. Quello dove creare un vuoto, un nulla da riempire di tutto ciò che mi circondava, immobile e senza far rumore.
Ascoltavo, ascoltavo, ascoltavo. E immagazzinavo. Giorno dopo giorno. I giorni passavano. Non avevo mai pensato a un viaggio, mai come allora. E avevo sempre viaggiato tanto perché per me il viaggio, come diceva Goethe, era la forma di conoscenza più intelligente. Tutto ciò che avevo imparato nella vita l’avevo appreso partendo. E tornando a casa, ricca e felice di ciò che il viaggio mi aveva insegnato, cioè a spogliarmi di tutto ciò che non era utile alla mia esistenza.
Ma quel viaggio verso Santiago era diverso, lo stavo progettando da tanto tempo, ancora prima che la mia ragione lo adottasse. Prima esisteva solo nel mio cuore ed era proprio lì che avevo cominciato a coltivare il seme, la speranza di riuscire a concretizzarlo. E l’idea stava diventando materia e la materia era tutto l’equipaggiamento che stavo creando. Fuori e dentro di me.
(Milk and Honey to Santiago, capitolo VIII, continua nel capitolo IX)
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