L’apriscatole
Racconto di Luigi Cecchi
Sorvolando con la punta del naso l’ampia superficie lucida del tavolo, Marianna scorse un paio di punti dove il proprio volto non veniva appropriatamente riflesso. Con rapidità e precisione vaporizzò una nuvola di detergente e passò il panno. Si specchiò di nuovo. Adesso l’immagine era perfetta: riconobbe il proprio piccolo volto, adombrato dalle grosse lenti che appoggiavano sul naso un po’ da topo, e i capelli neri raccolti a coda di cavallo. Si accorse che le rughe di espressione ai lati degli occhi cominciavano ad essere fin troppo visibili. Si ripromise di trascorrere più tempo davanti allo specchio, appena sveglia. Comunque, il problema delle macchie sul tavolo era risolto. Si drizzò sulla schiena molto soddisfatta, ammirando lo scintillio del pianale di marmo illuminato dalla luce del sole che filtrava attraverso la tenda del soggiorno. Rimase in quella posizione per qualche secondo, con lo spruzzino in una mano, il panno nell’altra, e un’espressione compiaciuta dipinta in volto. Poi il suo sguardo si posò sull’anta della credenza, laddove un raggio di sole evidenziava minuscole impronte di dita unte attorno alla maniglia di bronzo. Forse era stata Sarah, forse suo marito Enzo. Ad ogni modo si mosse, spruzzò, lucidò. Risolta anche questa, pensò. Ma proprio in quell’istante uno scrupolo insistente si spinse nella sua testa: quanto tempo era che non riordinava lo scatolame in quel ripiano? Pensò. Quasi una settimana. Poteva essere accaduto di tutto! Il lunedì e il martedì sua figlia Sarah pranzava a casa da sola, perché Marianna era di turno alla cassa del centro commerciale. Il giovedì addirittura c’era con lei anche Enzo, che in quanto a disordine non era secondo a nessuno. Se avessero deciso anche solo un giorno di questi di farsi una padella di piselli, o un tegame di fagioli, o di mettere sul fuoco un po’ di pomodoro per la pasta, ecco che aprendo quello sportello Marianna avrebbe di nuovo trovato tutto lo scatolame in disordine.
Sospirò profondamente, una specie di esercizio zen. Poggiò il multiuso e il panno sul ripiano del lavello, ripromettendosi di riporli nell’armadietto verticale il prima possibile, quindi tornò allo sportello della credenza. Fece ben attenzione ad aprire lo sportello afferrandolo dalla maniglia, in modo da non lasciare impronte sul legno appena lucidato. Serbando un nodo di timore attorno al cuore, spinse lo sguardo all’interno. Ebbene Marianna, eccoti servita: il cataclisma. Barattoli di legumi sul lato destro dello scaffale, bottiglie di passata mescolate tra le scatolette di tonno, e per finire pacchi di pasta ammucchiati sul lato sinistro (di cui uno lasciato aperto, quasi un’offerta votiva per le cimici). L’ordine delle cose era stato sovvertito in maniera brutale. Quante volte glielo aveva ripetuto a quei testoni? Barattoli a sinistra, pasta a destra, ogni cosa al suo posto. Non si possono infilare le cose grandi nello spazio piccolo, né destinare quelle piccole allo spazio grande. Ma niente, quelle semplici regole non riuscivano ad entrare loro in testa.
«Mamma, hai visto per caso il mio fermaglio di Hello Kitty?» le domandò con voce squillante Sarah, affacciandosi per un attimo dalla porta della cucina. Marianna sollevò gli occhi al cielo. Praticamente era come se sul ponte della nave un marinaio le stesse confessando di aver lasciato il rubinetto dell’acqua aperto, mentre il Titanic sta lentamente affondando.
«Se tu mettessi le tue cose a posto, le ritroveresti!» la ammonì Marianna.
Sarah gonfiò le guance annoiata, e scomparve. Tuttavia Marianna non accettò di lasciar cadere la conversazione in quel modo e, abbandonando la credenza con lo sportello aperto, inseguì la figlia nel corridoio.
«Tu e tuo padre avete messo di nuovo in disordine la credenza. È così difficile capire come vanno riposte le cose? Barattoli a sinistra…»
«…e pasta a destra.» ripeté Sarah, mentre infilava un bomberino rosa sopra un audace toppino color amarena. «Vabbé, ma il mio fermaglio di Hello Kitty non l’hai visto?»
«Certo che l’ho visto. L’ho raccolto dal tavolino del salotto e te l’ho messo sul comodino in camera.»
«Ecco perché non lo trovavo» disse la ragazzina, e Marianna comprese che si trattava di sarcasmo. Quattordici anni e ancora non era in grado di tenere in ordine le sue cose. Adesso se ne usciva, lasciandosi alle spalle una camera ridotta peggio di Hiroshima nel dopoguerra.
«Hai messo in ordine la camera?» le chiese, per scrupolo.
«No, lo faccio dopo» le rispose Sarah, lasciando la stanza con il fermaglio tra i capelli, pronta per uscire di casa. Diceva sempre così: lo faccio dopo. Ma non esisteva veramente, il dopo. Si trattava di una specie di dimensione parallela nella quale Sarah si toglieva un attimo il bomberino, rientrava nella sua camera e rassettava per bene ogni cosa, prima di andarsene.
«Vado a suicidarmi da Valentina» le disse, e invece di imboccare una dimensione parallela, imboccò la porta di casa, chiudendosela alle spalle.
Marianna incrociò le braccia e si abbandonò ad un altro pesante sospiro. Rivolse un malinconico sguardo alla camera di Sarah, senza però sbirciare oltre la soglia. Temeva che il proprio cuore si sarebbe fermato se avesse aggiunto anche quelle agghiaccianti immagini alla lunga serie di orrori quotidiani che aveva dovuto già affrontare da quando si era alzata, alle sei e quarantacinque di stamattina. Una cosa per volta, pensò. Tornò in cucina, alla credenza degli orrori.
«Barattoli a sinistra, pasta a destra» mormorò fra sé e sé mentre ripristinava rapidamente l’ordine delle cose. Chiuse la scatola aperta con una molletta che recuperò nel cestello fuori al balcone, quindi la accostò alle altre, in fondo al ripiano. Solo in quel momento si accorse di un particolare bislacco. Nascosto sul fondo della credenza, quasi nascosto tra due barattoli di polpa a pezzettoni, intravide un’etichetta che faticò a riconoscere, un cilindro di latta dall’aspetto alieno. Allungò il braccio e lo pescò, tirandolo avanti fino ad afferrarlo tra le dita. L’etichetta era bianca, con due bande azzurre che la solcavano orizzontalmente, interrotte solo dall’immagine di pezzettoni di pomodoro veraci che traboccavano da una lucida scodella di porcellana. La marca le era sconosciuta, si trattava di certo di una qualche sottomarca da discount. Forse era stato Enzo ad acquistarla, o Sarah. Sia il marito che la figlia condividevano lo stesso modo di fare la spesa: allungavano la mano verso il primo prodotto sullo scaffale, gettandolo nel carrello, senza preoccuparsi minimamente della qualità , del prezzo, della provenienza, e soprattutto delle raccolte punti. Comprese poi perché il barattolo era finito in fondo senza essere stato mai usato: non aveva l’apertura a strappo. Per aprirlo occorreva un apriscatole, e l’ultima volta che Enzo ne aveva usato uno nel tentativo di aprire un barattolo di ceci, l’aveva rotto. Ormai i barattoli senza apertura a strappo non li fa più nessuno, quindi Marianna non aveva più provveduto ad acquistarne uno nuovo: sarebbe bastato fare attenzione e non comprare scatolame che richiedesse un apriscatole. Ma evidentemente il resto della sua famiglia non era dotato del suo stesso buonsenso. Durante una fugace incursione al supermercato, in un momento qualsiasi del passato, dovevano aver gettato nel carrello questo barattolo di polpa di pomodoro, senza rendersi conto dell’immane errore. Poi non potendolo aprire, l’avevano lasciato languire sul fondo della credenza, laddove nemmeno lei l’aveva notato. Fino ad oggi.
Marianna controllò la scadenza. La data, sovrimpressa sul fondo di latta del barattolo, era a malapena comprensibile, ma le parve di scorgere l’anno corrente. Il mese sembrava proprio quello in corso, ma il giorno preciso era ormai illeggibile. Poteva essere già scaduto, oppure era in procinto di scadere. Giammai avrebbe lasciato che una polpa di pomodoro andasse a male in casa sua, era un peccato del Signore gettare via del cibo. Così si ripromise di scendere a comprare un apriscatole, subito dopo aver riordinato la credenza.
Dispose ogni cosa al proprio posto, passò il panno sul ripiano, ripose il multiuso nell’armadietto verticale e il panno nella vaschetta degli stracci per pulire sotto il lavello. Aveva programmato di lavare le tende del salotto, questa settimana, ma spostando un altro paio di impegni stabilì che avrebbe potuto permettersi di scendere una mezz’ora per un acquisto non previsto. Ovviamente non avrebbe avuto il tempo di raggiungere il centro, ma per fortuna proprio all’angolo della strada aveva aperto da qualche mese un bazar gestito da alcuni giovani signori cinesi. Marianna non vi si fermava spesso, perché nutriva un certo pregiudizio nei confronti delle cose acquistate presso quei negozi, e cioè che si trattasse di prodotti di qualità scadente, pronti a rompersi alla prima occasione, oppure dannosi per l’ambiente, o prodotti dall’altra parte del mondo da torme di bambini sottopagati incatenati nelle fabbriche, costretti a lavorare venti ore al giorno. Questo giustificava pienamente i prezzi molto convenienti di tutto ciò che quel bazar vendeva. Ma quella mattina Marianna non aveva tempo di perdersi appresso a certi moralismi, Enzo sarebbe tornato dal lavoro fra meno di due ore, maleodorante di sudore e di asfalto, stanco come sempre, ed era suo preciso dovere fargli trovare quei tre etti di fettuccine pomodoro, funghi e salsiccia che come ogni sabato lo aspettavano in tavola attorno all’una. E per prepararli avrebbe potuto utilizzare quel barattolo di polpa che stava per scadere, se fosse riuscita a rimediare un apriscatole nuovo al bazar dei cinesi.
«Buona sera» le augurò la signorina cinese alla cassa. Anche se erano le undici del mattino. Marianna mosse qualche altro passo all’interno del negozio e ricambiò con un sorriso e un cenno della testa. C’era davvero troppa roba in quel posto, e anche se analizzando la disposizione degli scaffali era possibile notare una certa logica nella disposizione degli oggetti in esposizione, tutto sembrava comunque ammucchiato alla rinfusa. Un bambino cinese gironzolava qua e là agitando una pistola di plastica che sparava bolle di sapone emettendo un rumore fastidioso. Altri rumori fantascientifici riecheggiavano a distanza, scavalcando le mura di metallo coperte di ninnoli che labirintizzavano l’enorme locale. Marianna, disorientata, quindi avvicinò alla cassiera.
«Mi scusi, stavo cercando un apriscatole.»
«Apriscatole?» ripeté la ragazza.
«Sì… un apriscatole… per aprire i barattoli.»
«Per aprire barattoli» ripeté di nuovo lei, afflosciando tutte le erre delle parole.
Marianna poggiò la borsa sul bancone, e con le mani tentò di imitare il gesto dell’apriscatole. Ma non era semplice. Avvitò le dita di una mano come se stringessero un barattolo, mentre con l’altra mimò goffamente il gesto dell’apriscatole, che però le apparve molto simile a quello dell’avviamento di una macchina.
«Apriscatole, capito» disse la ragazza, annuendo vigorosamente. E sgattaiolò via, lasciando Marianna lì davanti, avvolta da uno sciame di bolle di sapone che le vorticava attorno, mentre il bambino rideva. Dopo un paio di minuti la commessa tornò al suo posto, stringendo in mano una scatola verde rame con bizzarre rifiniture in oro, e dei kanji multicolore che la circondavano come nastri.
«È un apriscatole?» domandò Marianna indicando la strana confezione.
«Apriscatole» sembrò confermare la commessa. «Dodici euro e cinquanta.»
Marianna pagò, infilò la scatola nella borsa, salutò gentilmente e uscì dal negozio, tornando verso casa. Le restava ancora un’ora e quaranta prima che il marito tornasse, avrebbe fatto perfettamente in tempo. Anzi, forse sarebbe riuscita anche a lavare le tende del salotto.
Sarah tornò pochi minuti prima del padre, cioè un’ora e quindici minuti dopo che Marianna era rientrata a casa. La ragazzina lanciò il bomberino rosa sulla poltrona del salotto, le chiavi sul mobile del corridoio e la borsa a terra, di fronte alla porta della sua camera. Quando entrò in camera sua, si rese conto che la mamma era riuscita anche a rifarle il letto, riordinare i libri, infilare di nuovo tutti i vestiti nell’armadio e nei cassetti, e dare da mangiare al pesce rosso.
«Mamma ti ho detto che non devi entrare in camera mia! Avrei messo a posto dopo!» le gridò, da una stanza all’altra. Marianna però non le prestò attenzione perché era concentrata nell’intento di dare un senso alle istruzioni dell’apriscatole che aveva comprato in mattinata, le quali erano ovviamente tutte in cinese. Solitamente Marianna non leggeva le istruzioni degli utensili da cucina, anzi il più delle volte gli utensili da cucina vengono venduti senza nemmeno le istruzioni. Chi non sa come funziona uno schiaccianoci? O una grattugia? O un pelapatate? Ma questo apriscatole era davvero insolito. Dopo averlo estratto dalla scatola e poi da un involucro di plastica, Marianna si era resa conto che non somigliava a nessun apriscatole visto in precedenza. Lo aveva girato e rigirato più volte tra le mani, cercando di capire da che parte andasse appoggiato al barattolo, e in quale modo occorresse stringere la presa, ma non era riuscita a trovare nient’altro che una specie di manovella a molla, collegata ad alcune sottili lame circolari, in parte nascoste da alcuni gancettini uncinati. Siccome non avrebbe voluto finire per tagliarsi un dito prima di pranzo andando per tentativi, aveva estratto dalla scatola le istruzioni, solo per realizzare che non era inclusa nessuna versione in lingua italiana. Però c’erano delle illustrazioni. Marianna cercò di ricostruire la modalità di utilizzo a partire da quelle, ma desistette dopo qualche minuto. Era in ritardo con il pranzo, fra poco sarebbe tornato Enzo e il sughino andava rimesso sul fornello per almeno altri venti minuti a fuoco lento. Accatastò apriscatole, confezione, istruzioni e vecchio barattolo di polpa di pomodoro in un angolo del ripiano della cucina, quindi recuperò uno dei barattoli di polpa che aveva comprato lei stessa e procedette a preparare il pranzo con quello.
Enzo tornò con qualche minuto di ritardo, il che le permise di scolare la pastasciutta perfettamente in tempo. Quando furono tutti e tre attorno al tavolo, Marianna non esitò ad esprimere il proprio disappunto per la questione del barattolo.
«Soprassiedo sul disordine, ma la cosa più grave è che me lo abbiate tenuto nascosto. Quel barattolo sta per scadere, e se non me ne fossi accorta, avremmo dovuto buttarlo. Un peccato mortale.»
«Vabbé, – le fece il marito, mentre avvitava la forchetta nel piatto, – ma tutto è bene quel che finisce bene, adesso stiamo mangiando, mangiamo… oggi è stata una giornata d’inferno in cantiere, non mi va di trovarvi di malumore per una cosuccia del genere.»
Mentre suo marito infilava in bocca una forchettata di pasta e ragù talmente grande da riempirgli completamente la bocca, Marianna si rese conto che in un solo momento Enzo era riuscito a sminuire la faccenda, darle della stupida e azzittirla. Enzo era così, era un uomo un po’ rude ma col cuore d’oro. Se avesse avuto cognizione del fatto che Marianna molte volte si sentiva maltrattata dal suo modo di fare, probabilmente per amore lo avrebbe corretto. Il problema era che proprio non ne era cosciente. Enzo lavorava sulla strada, respirando ogni giorno il catrame dell’asfalto affinché gli altri cittadini la piantassero di lamentarsi delle buche sulle strade. Usciva di casa tutti i giorni alle sette del mattino, e tornava a casa per pranzo solo due giorni a settimana. Il suo stipendio non bastava a tirare avanti, per questo Marianna lavorava come cassiera presso il vicino centro commerciale, cinque giorni a settimana, per cinque ore, ad orari variabili non trattabili. In questo modo potevano permettersi di far studiare Sarah presso un liceo artistico privato, poco distante da casa, che le lasciava i weekend liberi e che sembrava piacerle molto. E poi Enzo poteva permettersi l’abbonamento alla tivvù satellitare, che gli proponeva una partita di calcio a qualsiasi ora del giorno.
«Cos’è quella scatola, ma’?» le domandò Sarah.
«È l’apriscatole. Ma non ho capito come funziona, le istruzioni sono in cinese.»
«Bella fregatura! – commentò Enzo. – Colpa tua che compri le cose dai cinesi. Quelli te l’hanno venduto già rotto. Tu per risparmiare due soldi, compri le cose da loro, e poi eccolo qui il risultato: istruzioni in cinese. Così manco glielo puoi riportare, perché loro ti dicono che l’hai rotto tu, perché non hai letto le istruzioni.» E poi inforcò un’altra treccia di pastasciutta.
«Oggi non avevo tempo di arrivare in centro» cercò di giustificarsi Marianna.
Sarah si alzò da tavola e raccolse le istruzioni, poi tornò a sedersi. Con il cipiglio di un cacciatore di tesori che scruta una mappa, la ragazzina scorse il foglio.
«Non sembra proprio un apriscatole. Sembra più un aggeggio per parrucchieri.»
Enzo ridacchiò sotto i baffi. «Ti hanno venduto una piastra per capelli al posto di un apriscatole!»
«Forse la ragazza del negozio non ha capito – mormorò Marianna. – Ma io ho cercato di spiegarmi per bene. Le ho ripetuto: apriscatole! E lei annuiva.»
«Beh dal disegno sembra che lo devi mettere in testa, come una specie di cappello– le spiegò sua figlia. – Secondo me non vi siete capite.»
Marianna sbuffò. Sarah accartocciò le istruzioni in modo barbaro, fregandosene di seguire le pieghe giuste, ma Marianna non la riprese. Non le andava, era stanca, e questa cosa dell’apriscatole l’aveva davvero messa di malumore. Non le andava di scendere di nuovo e farselo cambiare, aveva così tante faccende da sbrigare. In pratica, dodici euro e cinquanta buttati.
«Comunque, la pasta era buonissima, come sempre» disse Enzo, alzandosi da tavola. Le diede un bacino in fronte, poi la sua massa gravitò verso il divano. Raggiunse il telecomando e si sintonizzò immediatamente sulla partita del momento. Qualcosa tipo Slovenia-Düsseldorf.
«Io vado a studiare in camera» annunciò sua figlia, scendendo dalla sedia. A Marianna a quel punto non restava che sparecchiare, lavare i piatti, spazzare a terra e riordinare la stanza. Ma invece di fare tutto questo, pensò di dare un’altra occhiata all’apriscatole. Lo estrasse dalla confezione, e lo capovolse più volte cercando di posizionarlo in maniera corretta, come indicavano le immagini. Sarah aveva ragione, quella specie di semicerchio poteva essere una testa, ma Marianna non aveva idea di come si potesse azionare un apriscatole con la testa.
Un bofonchio particolarmente rumoroso la distrasse, si accorse che Enzo si era già appisolato. Meglio così: se non prendeva sonno finiva per scendere al bar a vedere la partita con gli amici, e di solito non si faceva rivedere che per cena. Non che la presenza del marito in casa le fosse di qualche aiuto, ma c’era un qualcosa di confortevole nel fare le cose quando Enzo era presente. Le sembrava che ogni cosa acquistasse un po’ più di senso, come se la sola figura di Enzo sullo sfondo giustificasse il mazzo che Marianna si faceva per rendere la loro vita un po’ migliore. Quando la testa di Enzo rotolò sullo schienale, Marianna si sorprese a fantasticare su un’ipotesi assurda. Magari avrebbe potuto provare l’apriscatole sulla testa del marito.
Per quanto si trattasse di una cosa estremamente imprudente, e anzi se presa seriamente addirittura pericolosa, Marianna la ritenne talmente improbabile e ridicola da considerare il tentativo divertente. Lasciò i piatti sporchi in tavola, assieme alla pasta avanzata e al resto delle stoviglie di cui avrebbe dovuto occuparsi. Scivolando silenziosamente alle spalle del marito, si posizionò esattamente dietro al divano, di fronte alla televisione accesa. Un paio di dozzine di uomini in mutandoni giocavano a palla su un prato, mentre pubblicità di automobili fioccavano con una certa insistenza ai lati dello schermo, ad intervalli regolari. Marianna non toccò nulla, decise di lasciare addirittura la televisione accesa. Sorrise e accostò l’apriscatole alla testa rotonda del marito. L’apparecchio aderì in maniera insolita alla nuca di Enzo, come se fosse magnetizzato. A quel punto Marianna ruotò la piccola manovella di lato, facendo forza con pollice e indice. Lentamente, la macchinetta si mosse attorno al cranio, apparentemente senza aprire alcuna ferita e senza disturbare minimamente il sonno di suo marito. Marianna continuò a girare la manovella finché l’apriscatole non ebbe compiuto un giro completo. A quel punto l’arnese emise uno scatto, come se alcune molle all’interno si fossero ritratte all’improvviso. La testa di Enzo si aprì di colpo, rovesciandosi. La calotta adesso si rivolgeva in avanti, appoggiata sul naso, lasciando Marianna libera di curiosare all’interno.
La prima cosa che Marianna notò, fu l’incredibile sporcizia. Tutto sembrava coperto da uno strato di catrame e polvere sottile, e l’odore che esalava era simile a quello di calzini bagnati e ammuffiti. Corse a recuperare lo spruzzetto multiuso e il panno. Tornò alle spalle del marito, che giaceva sul divano con la testa aperta, e vaporizzò velocemente un paio di nuvole di detergente all’interno, poi cominciò a strofinare per bene tutta la superficie. Nonostante la gran quantità di roba all’interno, non fu un lavoro così duro. Poche settimane fa aveva deciso di pulire il forno, dopo un anno che lo trascurava. Quella sì che era stato una faticaccia immane! Al confronto l’interno della testa del marito sembrava uno scherzo. Dopo qualche minuto, nonostante fosse stata costretta a sostituire per ben due volte il panno, la scatola cranica di Enzo aveva assunto un aspetto più che decoroso.
Marianna si aggiustò gli occhiali e diede un’occhiata più accurata all’interno. Scosse la testa. La solita storia: tutto in disordine. Cominciò senza indugio a mettere le cose al loro posto. Le cose piccole nello spazio piccolo, le cose grandi nello spazio grande. Non si sorprese di trovare il calcio, una piccola scatolina verde, che si agitava da sola su uno scaffale enorme. Perché sprecare tutto quel ripiano? Ripose il calcio in uno scomparto appena dietro l’orecchio destro. Tirò fuori invece la responsabilità come padre da una specie di buco sul fondo. Se ne stava lì, arrotolata e ingiallita. La distese e la appese alla parete all’interno della nuca. Spazzò via soffiando quel che restava della voglia di ricominciare a fumare, incrostata sotto uno scaffale, poi per sicurezza ci ripassò il panno, che aveva tenuto a portata di mano. Fu difficile trasferire tutto lo scaffale del porno lontano dalla zona occhi, fece quello che poteva. Al posto del sesso infilò un paio di libri di Emily Bronte, e un dizionario di italiano. C’era un angolo buio dove Marianna riconobbe la paura di essere omosessuale. Ecco da dove veniva quella puzza di misoginia. Non riuscì a cancellarla del tutto, perché quando fu sul punto di infilare il mocio nella testa del marito, squillò il telefono. Corse al telefono. Per l’insistenza della chiamata aveva pensato che si trattasse della zia Pina, che telefonava ogni fine settimana dalla bassa Italia per sapere come stava suo nipote Enzo, invece si trattava della solita proposta commerciale da parte della compagnia telefonica. Quando Marianna abbassò la cornetta, si rese conto che la cucina era ancora in disordine e che era molto in ritardo con le altre cose da fare.
«Ci mancava solo che mi mettessi a mettere a posto il cervello di mio marito…» mormorò.
Tornò da Enzo e gli richiuse il cranio, battendogli la mano sulla pelata un paio di volte per assicurarsi che fosse ben sigillato, poi se ne tornò in cucina per lavare i piatti.
Circa venti minuti dopo, Enzo si destò dal pisolino. La partita non era ancora finita, e sua moglie stava facendo i piatti. Le note ovattate di una canzone rock percorrevano il corridoio, provenienti dalla camera di sua figlia. Si voltò verso lo schermo e si rese conto che dopo un’ora dall’inizio dell’incontro, le due squadre stavano ancora zero a zero. In quell’ora avrebbe potuto fare davvero tantissime cose, ad esempio finire quel libro che le aveva comprato sua moglie, Cime Tempestose. Si alzò dal divano e si spostò barcollando in cucina. Dormire di pomeriggio gli faceva sempre quello strano effetto, uno stordimento prolungato che gli gravava addosso fino a sera.
«Scendi giù al bar?» gli domandò Marianna.
«No… – rispose lui, – vado a vedere se Sarah ha bisogno di una mano per i compiti.»
«Io devo scendere di nuovo, più tardi… voglio riportare questo apriscatole al negozio dei cinesi, quello qui sotto all’angolo.»
«Perché? Non funziona?»
«Funziona, certo… – cercò di spiegare Marianna. – Ma oggi mi ha fatto perdere troppo tempo, non ho proprio voglia di caricarmi di altro lavoro. Insomma va bene badare alla casa, le spese, il pranzo e la cena… ma pure al tuo cervello mi sembra davvero troppo.»
Enzo inarcò le sopracciglia pensoso, tentando di dare un senso alle parole della moglie, ma non ci riuscì. Gli parve di aver fatto qualcosa di male, ma non riusciva a comprendere cosa fosse. Mentre si allontanava nel corridoio, si chiese se non fosse il caso, l’indomani, di andare a messa.
Marianna finì di rassettare la cucina, asciugò il bordo del lavello e passò la scopa tra le gambe del tavolo raccogliendo le briciole che erano in terra, e infine scosse la tovaglia fuori dalla finestra nel cortile interno del condominio, per la gioia dei piccioni. Infilò l’apriscatole nella sua confezione di cartone, ripose all’interno anche le istruzioni, quindi uscì di casa e si diresse al negozio cinese. Le luci delle strade si erano già accese, i lampioni ronzavano ancora mentre le lampade al neon si scaldavano all’interno degli alti gusci metallici. Non erano ancora giunte le lunghe giornate primaverili, non era ancora scattata l’ora legale. Marianna si stupì di essersi soffermata su certi dettagli, di solito i ragionamenti su certi argomenti li lasciava a zia Pina.
Nel negozio ritrovò la commessa che poche ore prima le aveva venduto l’apriscatole per dodici euro e cinquanta. Si salutarono l’un l’altra con un sorriso.
«Vorrei sostituirlo. Non funziona» spiegò Marianna, allungando un po’ le vocali come se stesse parlando attraverso un vetro insonorizzato. La ragazza cinese sorrise e prese in mano l’apriscatole.
«Cos’è?» domandò.
«L’apriscatole che mi avete venduto stamattina. Non funziona. Cioè in verità non è il tipo di apriscatole di cui avevo bisogno. A me serve quello per aprire i barattoli di latta. Ha presente?»
La ragazza sorrise di nuovo.
«Stamattina glielo avevo preso, l’apriscatole. Ma quando sono tornata, lei era già andata via.»
Parlava in un italiano perfetto. Addirittura a Marianna sembrò di cogliere un certo accento ciociaro.
«No, io ho comprato questo – spiegò Marianna indicando la scatola colorata. – Dodici euro e cinquanta. Me lo ha venduto lei.»
«Le assicuro signora che io posso averle venduto questa… roba. Non so nemmeno cosa sia. Che lingua è questa? Coreano?»
«Veramente, – ammise Marianna – pensavo fosse cinese.»
«Le assicuro che non è cinese. E nemmeno giapponese. Mi sto laureando in lingue orientali. Comunque non posso averglielo venduto io. Ecco, guardi: questo è l’apriscatole che le sono andata a prendere stamattina. È rimasto qui, nel ripiano sotto il bancone.»
La ragazza estrasse da un ripiano nascosto un blister di plastica che conteneva un apriscatole dal manico rosso. Marianna lo riconobbe immediatamente: quello era veramente un apriscatole. Tra l’altro, di dubbia qualità . E sulla scatola una pecetta adesiva ne indicava il costo scritto: due euro e dieci centesimi.
«Va bene, mi scusi ma ho tante cose da fare…» mormorò. Prese la scatola colorata e la rimise nella borsa, poi uscì dal negozio. Ancora confusa per quello che era successo, non potè fare a meno di fermarsi in mezzo al marciapiede a riflettere. Pensò di essere stata fregata, le avevano venduto uno strano aggeggio per dodici euro anziché un banale apriscatole che costava solo due euro, e adesso fingevano di non saperne nulla. Aveva ragione Enzo, di questi cinesi non ci si può proprio fidare. Calcò il cappello di lana sulla testa e si avviò verso casa, aprì il portone del condominio, salì due rampe di scale.
Stava proprio per infilare la chiave nella serratura, quando con la coda dell’occhio notò la presenza di qualcuno che molto probabilmente la stava aspettando lì, seduto sulle scale alle sue spalle, già da qualche minuto. Una nuvola di bolle di sapone la investì in pieno, seguita da una serie di risatine divertite. Il bambino se ne stava seduto sul terzo gradino, e puntava la pistola nella sua direzione. Disse qualcosa, qualcosa di incomprensibile. Marianna non lo capiva, il cinese, per lei erano solo una serie di suoni senza senso. Il bambino si sollevò in piedi e solo allora Marianna si rese conto che qualcosa non andava in lui. Quella stessa mattina, al negozio, l’aveva osservato di sfuggita dall’alto in basso, e non si era accorta di quanto fosse sgraziato. Con quelle dita lunghe, quelle gambette rinsecchite, e quella testa grande. Solo ora comprese. Non si trattava di un cinese. Quello di fronte a lei era uno sfortunato bambino disabile.
«Bambino, ti sei perso?» gli domandò cortesemente. Lui le puntò nuovamente la pistola contro. Altre bolle, altri suoni strani, altre lucine colorate. E un attimo dopo era scomparso. Il bambino, la pistola, le bolle di sapone, e anche l’apriscatole che teneva nella borsa. Niente più risate, niente. Di quel ragazzino disabile non vi era più traccia.
Marianna batté le ciglia più volte prima di riprendere fiato. Devo aver avuto un mancamento, pensò. Istintivamente portò la mano alla borsa. Il bambino se n’era approfittato per fregarle l’apriscatole! Grazie a Dio però non aveva preso il portafogli, né le chiavi di casa. Lievemente scossa, si affrettò ad aprire la porta ed entrare. Un delizioso profumo di arrosto la accolse, facendole passare di mente quanto era appena accuduto. Arrosto e patate, per la precisione, e proveniva dalla sua cucina.
«Amore, – le disse Enzo, venendole incontro e baciandola teneramente, – ho deciso di cucinare io stasera. Sarà pronto fra un’ora. Tu siediti pure sul divano, rilassati un pochino.»
Marianna lo inseguì con lo sguardo mentre tornava ai fornelli. C’era qualcosa di strano in lui, ma non riusciva ancora a comprendere cosa. Forse aveva a che fare con quella strana giornata, l’apriscatole, il discorso che gli aveva fatto sul mettere le cose al loro posto.
«Mamma… – la chiamò Sarah dal fondo del corridoio, uscendo di corsa dalla propria camera, con le pantofole di Bart Simpson infilate di corsa ai piedi. – Non prendermi per scema. Lo so che sembra una scemenza ma… credo di aver visto una specie di… disco volante… che risaliva dal cortile.»
Marianna scosse la testa.
«Oh per favore. Piuttosto, dammi una mano a smontare le tende del salotto. Forse con questa novità che tuo padre sta cucinando, faccio in tempo a metterle in lavatrice prima di cena.»
 ***
Luigi Cecchi ha studiato Biologia a Viterbo e ha aperto una Fumetteria a Bracciano (Roma). Disegna strisce a fumetti, vignette, scatta fotografie e scrive racconti, alcuni dei quali sono stati premiati e successivamente pubblicati in antologie. La sua prima raccolta di racconti, Frammenti, è stata segnalata dalla giuria del Premio Calvino 2011. Attualmente collabora con Del Vecchio Editore.
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