Può un titolo essere costituito da una sola ed unica preposizione articolata? È questo l’ultimo gioco d’azzardo di Alessandro Bergonzoni con il suo spettacolo “Nel”. Quasi un richiamo ad aguzzare la vista (e soprattutto l’udito) e a guardare all’essenziale di ciò che si vedrà in scena mentre si viene sommersi da un fiume in piena di battute. Di cui, non a caso, ben poco resta in mente una volta recuperato il ritmo del proprio respiro.
E allora via con l’accumulo di dediche a sipario ancora chiuso: “dedicato a…, dedicato alle suocere cannibali e ai loro generi alimentari ecc.â€. L’accumulo e il nonsense sono infatti due delle tecniche comiche più care a Bergonzoni, ma la risata diventa una necessità liberatoria soprattutto quando si lancia nel gioco di parole con l’accostamento del tutto inopinato di termini lontanissimi nei loro consueti modi d’uso eppure sorprendentemente vicini e talvolta rivelatori. Una delle sue storiche parole d’ordine sentenzia “che l’Occidente si orienti!â€, in altri casi ci ha ricordato che è necessario “porre le basi per avere altre altezze†o invitato a “non credere nelle radici, ma allungarsi coi ramiâ€. E che dire del cameriere che non vuol portare neppure le posate al cliente che ha ordinato un millesimo di secondo?
Far deflagrare conflitti linguistici più o meno latenti nel parlare comune sembra essere la missione che si è dato l’attore bolognese e la cosa gli riesce particolarmente bene, specie quando il ritmo si fa vertiginoso. Certo, il meccanismo del nonsense è rischioso e si può molto facilmente avvitare su se stesso quando non sia altro che il susseguirsi gratuito di una serie di freddure, costruite più sull’entusiasmo di una grande facilità di espressione comica che sul desiderio di comunicare attraverso di essa. In “Nel” Bergonzoni è riuscito a superare in modo compiuto il fantasma di questa difficoltà che poteva ancora aggirarsi attorno ai suoi spettacoli precedenti: la trama è qui del tutto inesistente (laddove la preparazione di un’opera lirica sui generis teneva in piedi un filo narrativo nella seconda parte di “Predisporsi al micidiale”), frammentata com’è in minuscole e non numerabili particelle centrifughe, ormai non più riconducibili ad unità e nemmeno a legame di qualunque senso tra loro, se non attraverso gli incredibili e inattesi ritorni e le fulminee connessioni linguistiche. Le tecniche comiche dell’assurdo si rispecchiano e si innervano dunque così fortemente nella struttura dello spettacolo che viene il dubbio se Bergonzoni non ci stia parlando di qualcos’altro, se non stia anche seminando allusioni al reale e al tentativo di conoscerlo, cioè di ridurre ad unità la sua frammentazione.
La scenografia, curata per la prima volta dallo stesso autore, attore e regista (in questo insieme a Riccardo Rodolfi), è molto sobria: quinte nere e alcuni rettangoli di tela bianca, sulla sinistra anche un pulpito coperto di bianco. “Ah, mi ricordo!â€, prorompe in scena un vivace Bergonzoni vestito di bianco dalla testa ai piedi e i suoi scoppiettanti sproloqui prendono inizio. Si incontra così, tra li altri, un personaggio di cui non si riesce a sapere il nome neanche con le trappole più astute, che costruiscono una delle prime storielle assurde a riferimenti concentrici, ovvero a ciò che era stato detto incidentalmente un attimo prima e che prende forma e vita inaudite, diventando parte di una pseudo-narrazione che cresce inopinatamente con il rigoglio e la vitalità donate da un ritmo forsennato. Tuttavia l’importante è “sapere cosa dire quando si deve tacereâ€.
Ci si imbatte presto in una sorta di libretto-enciclopedia dalla copertina bianca in cui è contenuto tutto lo scibile umano o, forse, tutto ciò che è sulla terra (in senso letterale!): alla lettera “Sâ€, ad esempio, c’è la mosca. E non solo un’immagine di una mosca, ma la mosca stessa che ronza! “Ah, fatto bene, è fatto bene!†si stupisce l’attore in scena. E ancora via di questo passo, crescendo sempre di più coi paradossi e con la presenza costante del ritornello della mosca, innestato su altri più brevi ritorni che danno corpo alla costruzione dell’assurdo. La cui spiegazione, chi vuole, può trovare a pagina 164, così come tutto ciò per cui ci si rivolge al libro (ed ecco un altro dei suddetti ritornelli).
Chi riesce a trattenere le lacrime provocate dall’incalzare delle risate e ad avere ancora l’orecchio in grado di ricevere, sarà messo in allarme dalla scoperta che “c’è un tempio tra le tempieâ€: è arrivato, infatti, il momento di “aver cura del proprio metafisico†e i sospetti lasciati prima da parte si rianimano decisamente all’ammissione che anche “lo scrittore è uno scritturato†(e salta fuori di nuovo il libro!). Ma “la lingua levatoia che fa passare il pensiero†devia proprio quando stavamo per cogliere un filo conduttore e ci trascina un’altra volta per strade amene, dove si può incontrare il “collaudatore di attimi†che ha l’esigenza di pregare “Sua Quantità , il dio Tant-aloâ€.
Lo spettacolo è già volato via; con la mosca, si può aggiungere. Ricompare infine il libro e ci si ritrovano tutti i personaggi e le parole che sono passati sulla scena (del mondo?), ognuno equivalente a se stesso ma soprattutto a qualche cosa d’altro nominato in precedenza: piccoli flash della memoria, naturalmente accostati senza ordine né filo logico. E l’ultima forsennata e parossistica lettura si conclude con la rivelazione che solo “nel†è uguale a “nelâ€.
Si esce con fatica, ridendo e cercando di ricordare più freddure possibili. Qualcuno forse interrogandosi sul senso dell’ultima o addirittura chiedendosi se questo fantomatico libro non sia “Il Libroâ€.
“collaudatore di attimi” è bellissima! 🙂
Complimenti per la recensione, Andrea.
Ogni tanto ti fa chiedere: e se avesse voluto fare della poesia? O la sta già facendo?
Grazie Valeria!
Eh, immagino…
Prego!
Comunque ne aspetto altri….
di articoli!