Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: – Tirati in là ! – oppure: – Sta attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! – Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
 Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
 – To’! – disse infine uno. – È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?
 – Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia… –
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà , nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
 Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là . Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre…
(Giovanni Verga, Rosso Malpelo, da “Giovanni Verga – Tutte le novelle“. Grazie a Liber Liber)
Il brano qui riportato evoca bene la tragedia che si è verificata in questi giorni a Torino.
Questo non è un blog politico, né vuole fare politica, ma di fronte a fatti di questo genere non si può rimanere indifferenti…
Quello che più indigna è che la sicurezza dello stabilimento era già fortemente compromessa (leggi qui e qui) e che “forse”, come hanno riportato diversi giornali, i sistemi di emergenza non erano funzionanti.
Un tragedia in qualche modo preannunciata da un evento analogo, per fortuna senza consegnuenze gravi, verificatosi nel 2002, per il quale cinque dirigenti dell’azienda sono stati condannati in primo grado; ma non essendo ancora stata fissata la data del processo di appello, il reato rischia di cadere in prescrizione! Grazie ad una “giustizia” che in Italia ormai ha oltrepassato il confine del grottesco…
Di fronte a disgrazie di questo genere, sicuramente prevedibili, sicuramente evitabili, non ci sono parole… anzi, una ce n’è: Vergogna!
Leggere il racconto è come mettere un paio di occhiali; guardando di traverso a seconda delle lenti si vede di più, di meno, una diversa distanza, un diverso colore. Mai il racconto ci dirà com’è stata “veramente” la cosa: le girerà intorno, cercherà il suo confine tra gli avvenimenti o crederà di penetrare oltre la scorza fino al cuore, fino a quello che pensiamo sia il cuore. Leggere il racconto è accantonare il pensiero corrente e stornare il proprio tempo per accogliere l’invito e seguirlo dove ci conduce, per rispetto di chi lo ha scritto e di quello che c’è scritto. Se il racconto è lo strazio, ci accorgiamo che non è replicabile se non con altro strazio, con altro racconto; allora quasi ci rammarichiamo di non riuscire a trovare nella nostra mente uno spazio sufficientemente grande dove mettere ogni cosa, gli operai di Torino e le persone morte per un incidente e riportate al paese dove vivo circa un mese fa, e insieme a loro tutti quelli che non conosciamo, che il mondo sacrifica per poi spiegare che ogni cosa è sotto l’alto controllo della statistica. Dove qui cresce lo sdegno civile là esaspera la conoscenza personale; il racconto allora è la sola mediazione che ci rende partecipi di entrambi nello stesso modo. Il racconto è il tributo che possiamo dare a chi ha subito l’ingistizia di non poter più vivere, dove la curiosità dell’ascoltare si approssima alla partecipazione. Dobbiamo conoscere ogni istante, ogni causa delle cose successe, e ricordare i nomi, e da capo tornare a raccontare ad evocare tutto quello che di umano abbiamo perso, soltanto per poterlo ritrovare. Perché il racconto è il paradigma della vicenda umana. Senza questo riconoscimento, niente di quello che succede avrebbe importanza, così che ogni cosa succederebbe senza lasciare traccia. Indifferenti, inutilmente crederemmo di vivere. Indifferenti vuol dire inesistenti. Grazie Valeria per avercelo proposto.
Grazie a te per il commento.
Se n’è andato anche l’ultimo dei feriti…
http://www.lastampa.it/Torino/cmsSezioni/cronaca/200712articoli/5547girata.asp