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La corona di Arianna

C’è chi al mattino trova cappuccino e brioche; qualche tempo fa io e Flavio al nostro risveglio aprendo la posta in internet abbiamo avuto una diversa gradevolissima sorpresa: il nostro amico Leo ci aveva inviato un bellissimo racconto. Ottenuta la sua approvazione, ci è piaciuto condividere questa storia con i lettori dell’Eco, che l’ha pubblicata in due puntate nei numeri di ottobre e di novembre, e che ora chi vorrà potrà ritrovare qui nel nostro sito.
Ringraziamo ancora l’artista senigalliese Andrea Mattiussi, che ha preparato appositamente per noi i due originali disegni di Arianna, collaborando all’idea con entusiasmo.

di Leonardo Badioli
LA CORONA DI ARIANNA
(Corona Boreale)

Quello che separa un giorno dall’altro è un tempo smisurato. Non lo scandiscono i passi e le azioni degli uomini, ordite, motivate, precise. Il tempo batte liquido sulla spiaggia di Nasso come in ogni altro luogo, scivola via come un fiume, o finge un oceano: accumulo d’ombre scolpite nel lento galleggiare delle geometrie del cielo.
Mentre ogni cosa dorme, la mente esce dal suo alveo e vaga senza ostacolo, senza ritegno; conosce tremori, scoscendimenti e gioie purissime che il giorno nemmeno avvicina. Poi a volte dimentica di ritornare, si perde chissà dove come le tracce di un animale tra le foglie; non rimane, al risveglio, che il pensiero concreto, positivo, opportuno. Si può essere molto diversi, la mattina seguente.

La nave aveva preso costa e scaricato la sua compagnia clamorosa e festante per una breve sosta sull’isola di Nasso, verso sera. Nemmeno la stanchezza addolciva l’aspra schiera dei giovani di Atene, che Teseo riconduceva a casa dopo averla strappata al pasto sanguinoso del Minotauro.
Erano balzati a terra liberando la gioia per quel ritorno insperato in mezzo a spruzzi d’acqua e a incontenibili grida di trionfo. L’equipaggio aveva appagato la sua foga festosa con carni fumanti e sorsi copiosi di idromele; poi la notte aveva invaso ogni angolo del cielo e le voci s’erano fatte a poco a poco lontane, e fuse col suono del mare.
Arianna entrava dalla realtà nel sogno come attraverso una porta spalancata, dalla soglia ampia e indefinita. L’intuizione di una nuova era aveva scosso all’improvviso il suo mondo immobile e l’aveva sbalzata via dall’antica Creta verso un futuro vertiginoso e senza confini; ora, addormentata sulla piccola isola come sopra una zattera alla deriva, restava sospesa sull’orlo di quel tempo smisurato, appena una tregua sul giorno che deve venire.
Eppure quella vena di vitalità sfrontata l’aveva pur intuita fin dal primo istante in ognuno di loro, e in uno particolarmente. S’erano presentati a Creta allo scadere del nono anno, come stabilito, sette e sette giovanissimi di Atene, per il tributo dovuto al Minotauro, e appena a terra non avevano nascosto di andare contro voglia incontro a quel destino di consacrazione sanguinosa. Con loro era apparso Teseo, avvolto di bellezza insolente. Minosse lo aveva accolto con severità regale, ma lui lo aveva subito sfidato dichiarandosi figlio di Poseidone.
“Dimostralo, allora”, gli aveva risposto il Re con fastidio, e aveva gettato un anello nell’acqua, dove la chiglia della nave pescava in una profondità opaca. “Riprendilo, se sei davvero figlio del signore del mare. Tuo padre ti aiuterà”.
Teseo s’era tuffato sull’istante e l’acqua s’era richiusa per lunghi momenti; poi, nell’attenzione di tutti, la superficie era tornata a bullicare e lo straniero ne era emerso con un braccio alzato e il volto raggiante. Tra le dita stringeva l’anello ritrovato.

Questo primo scacco aveva messo Minosse in inferiorità davanti al nuovo venuto come mai era accaduto al potente re di Creta. Arianna ne osservava poco discosto il disappunto, e già con meraviglia si accorgeva che il risentimento per quella aperta sfida alla regalità paterna le pungeva il desiderio di incrociare lo sguardo e cogliere l’intenzione di quell’ospite strano e stupendo.
Strano certamente lo era, per il solo fatto di non voler accettare un sacrificio naturale e dovuto. Perché gli si leggeva in faccia l’intenzione, a stento contenuta nei panni della cautela e della forma, di muovere qualcosa per non dover pagare il necessario tributo. Ma su cosa poteva confidare per mostrarsi tanto sicuro di riuscire? Chi voleva intimorire con quell’atteggiamento sfrontato? Forse proprio nella sua esibizione riponeva la speranza di riuscire a portare la sfida fin dentro il labirinto.
Ma lei, Arianna, non aveva da difendere altro che la sua conoscenza, dunque non aveva alcun motivo di temerlo. Teseo fu così accolto nel migliore dei modi, come figlio del vassallo d’oltremare. Eppure continuava ad apparire strano. Tanto sembrava orgoglioso del suo proprio decidere per una cosa o per l’altra quanto si mostrava incapace di cogliere cose che ogni Cretese teneva per facili e indubitate. Sapeva dare vento alle vele e traversare il mare, guidare molti uomini e pescare anelli dal fondo, ma s’ingarbugliava come un bambino di fronte alle nozioni più semplici. Sapeva del labirinto, certo, ma non ne conosceva il percorso. Di più: si perdeva dietro mille paragoni e tornava ogni volta da capo perché non riusciva a capire che è il labirinto a spiegare le cose, e non il contrario.
Arianna rideva vedendo quanto era imbrogliato. “È facile”, disse alla fine sfidandolo a un gioco. “È fatto così il labirinto”.
Si alzò, mosse rapidi passi in avanti, poi piegò il fianco e descrisse una giravolta, accompagnandosi con l’accenno a un canto conosciuto; quindi arretrò seguendo il gesto con ampio movimento del fianco e della mano. Accennò a uno slancio in avanti, piegandosi in nuove volute e di nuovo cantando la sua canzoncina. Giunta all’estremità del percorso immaginario, tornò per tre volte a grandi balzi sul punto di partenza e se ne discostò ogni volta di un tanto, finché si fermò a piedi uniti e rise di nuovo.
“C’è un unico filo che lega la trama dei passi. Nient’altro”. Teseo rimaneva accigliato. Inutile anche tentare, perché non avrebbe saputo mimare quei gesti, né poi ricordarli, una volta che fosse là dentro. Vedeva soltanto una giovane donna e non i percorsi che quella tracciava con grazia sapiente, e già si apprestava a carpire, più che il segreto del labirinto, il cuore della sua signora.

Arianna e il labirinto - Disegno di Andrea Mattiussi
Arianna e il labirinto – Disegno di Andrea Mattiussi

Arianna continuava a guardare lo straniero con ammirata benevolenza. Ma chi gli aveva raccontato le strane cose che andava dicendo? Certo il Minotauro poteva apparirgli una specie di mostro mezzo umano e mezzo taurino e nient’altro, ma cosa l’aveva convinto che fosse stato rinchiuso nel labirinto come in una prigione proprio a causa della sua mostruosità sanguinaria?
Non era per niente così. Il Minotauro era il principe del labirinto, vi abitava perché quella era la sua casa, il suo sacrario. D’altra parte, che prigione poteva essere quella in cui ognuno, uomotoro compreso, poteva uscire a piacimento, purché nel rispetto dei modi dovuti?
Teseo aveva un modo tutto suo di vedere le cose. Disprezzava suo padre Minosse come stolto e malvagio; per non dire di sua madre Pasifae: a sentir lui la regina avrebbe provato verso il bianco toro di Creta una tale sfrenata passione da entrare in una vacca di legno per muovere da lì le sue voglie. Per pura e violenta gelosia poi Minosse avrebbe rinchiuso quel frutto d’amore bestiale dentro un labirinto costruito apposta.
La passione per il toro si spiegava in tutt’altro modo. Era comune a tutti i Cretesi e non solo un’attrazione fatale per le loro regine. Minosse in persona lo onorava, e non certo per gelosia lo aveva insediato al centro del più bel palazzo dell’isola.
Il toro era per loro il mostrarsi della divinità, quando, in mezzo a tutto il popolo, se ne invocava la presenza. Era il reggitore del cielo e il padrone del tempo, dalla mattina, quando il sole sorgeva nel luogo dove quella costellazione reggeva la volta celeste, nell’equinozio di primavera, alla sera, quando il suo occhio rosso vegliava sul sonno sicuro dell’isola.
Però non poteva nascondere, Arianna, al cospetto del giovane Ateniese, che egli possedesse qualcosa che nell’isola del miele lei non aveva conosciuto; qualcosa che a tutti loro evidentemente mancava. Non sapeva dire cosa fosse esattamente. Il suo modo di fare era unico, speciale. Ecco cosa aveva: faceva succedere le cose. Sapeva dare un senso ad ogni avvenimento e porvi al centro la propria volontà. Sapeva creare illusioni più vive della realtà, e al confronto di esse la realtà stessa somigliava a un’illusione; e vi faceva entrare chi gli era vicino come se il mondo dovesse nascere in quel momento, e dipendesse tutto dall’essere prossimo alle sue decisioni. Amava le novità in modo inspiegabile, e ogni possibile indizio lo spingeva verso imprese rischiose e vagamente paradossali.
Adesso il motivo del viaggio e di ogni suo passo le appariva chiaro: voleva penetrare nel labirinto, affrontare il Minotauro, ucciderlo, spezzare il vincolo del tributo novennale. Pareva non si rendesse conto della temerità sacrilega di questo piano, tanto che nessuno mai l’aveva concepito: né la città era cinta da mura, né il palazzo era guardato da soldati, semplicemente perché non ce n’era bisogno.

Nessuna lunga, tormentosa riflessione avrebbe portato Arianna a decidere il gesto di aiutare l’Ateniese nell’impresa. Il labirinto era la fonte della sua conoscenza, il Minotauro suo fratello. Con un semplice gesto avrebbe compiuto adesso l’insulto più sacrilego, il tradimento più infame; avrebbe in un momento squarciato la trama di un millennio. Ma l’amore regala intuizioni prodigiose e nasconde talvolta l’evidenza: dunque Arianna non poteva avere dubbi. Si meravigliava anzi di giungere a tanto con un libero atto d’arbitrio, guidare quell’uomo diritto al suo scopo e poi fuggire con lui lasciandosi alle spalle le macerie di un crollo che lei stessa aveva provocato.
“Ti insegnerò”, venne fuori all’improvviso, “come si fa con quelli che devono iniziare”. Ma era il sogno che intanto parlava per lei. “Questo filo segnerà il tuo ritorno dal centro del palazzo, quando l’avrai trovato”.
Ogni cosa si svolse come Teseo aveva voluto. Dopo una lunga attesa ricomparve con la spada insanguinata e il filo nuovamente avvolto all’altro capo, che Arianna teneva in una mano.
La nave salpò in fretta e furia col suo carico di scampati e l’azione fu così subitanea che colse i Cretesi di sorpresa. Quando si accorsero dello scempio del Minotauro e della loro fuga, la nave già puntava in direzione delle stelle settentrionali. Alla profuga regina quella prua rivolta verso l’Attica sembrava salpasse verso mete più lontane di quelle che si possono raggiungere attraversando un discreto tratto di mare. La gente nuova che l’aveva carpita all’isola serena lavorava sodo ai remi e alle vele, con un affiatamento fiero e stranamente provvisorio. Discutevano insieme sul da farsi: suscitava impressione, a ogni occasione, quel loro discutere di tutto, come fosse possibile tenere sapienza e volontà così tranquillamente separate. Arianna si accorgeva con ritardo del legame che invece le univa.
Arianna non capiva, credeva, e questo credere non si conteneva in un vaso ricettivo e prezioso; sentiva piuttosto una ferita aperta e il dolce fluire del sangue. No, per quanto amasse quella gente, non sarebbe mai diventata come loro, nemmeno tentando. Adesso era regina della nave, come era stata regina dell’isola, ma con fatica. Per tenere il comando, conservare il rispetto, bisognava battersi, non bastava conoscere il dio e restare in contatto con lui. L’esuberanza della nuova compagnia metteva alla corda a ogni istante un nuovo paragone. A quel punto potevano fare qualsiasi cosa, assurda o impossibile, qualsiasi atto il cui senso si sarebbe rivelato a lei soltanto quando fosse compiuto.

Il sonno di Arianna sulla riva di Nasso restituiva la dormiente all’isola più grande che aveva lasciato, al suo tempo perenne. La luce della nuova età, immaginata come una folgorazione, non era ancora visibile sull’orizzonte.
Quando il calore del mattino le aprì gli occhi, intorno non c’era più nessuno. La linea del mare era intatta. Stentò a percepire la distanza di quel cerchio e l’arco ormai vuoto della riva. Le parve piuttosto di trovarsi avvolta in un fondale dipinto e senza peso, dove i delfini danzassero in cerchio attorno a una nave che non c’era più.
Il sonno, non altro, l’aveva ingannata. Non l’amore per il giovane Ateniese la cui prossimità vigorosa l’aveva condotta fin lì; non Teseo l’aveva ingannata, ma qualche ragione inspiegabile; e tutto si sarebbe ricomposto in un ordine comprensibile tra qualche momento. La certezza dell’inganno, indicibile quanto volgare, affondava pian piano, ma a passi inesorabili, nella coscienza.
Arianna si guardò intorno smarrita; non ebbe il coraggio nemmeno di gridare, perché il suono della sua voce l’avrebbe sprofondata nella certezza di trovarsi sola. Si sentì in un momento defraudata di tutto, del rispetto, dell’integrità, della stessa certezza di esistere. Sentì le sue membra perdere spessore e smarrirsi nel mare senza avvertire né freddo né calore. Vide su di sé l’inconsistenza della medusa che l’onda ha rigettato sulla rena.
Poi, stranamente, un fiotto caldo le invase le vene e spinse lo stomaco a vomitare tutte quelle parole che non sapeva di contenere. Troppo offesa al di là della colpa. Quel volgare ladro di speranze, ignorante mentitore, astuto solo nell’ispessimento della coscienza, tronfio figlio di capra, la sua stessa presunzione l’avrebbe un giorno ferito a morte. Lui che amava decidere per il solo gusto di sentirsi vivo, doveva pur conoscere una nuova atroce punizione, la giusta paga dell’infamia che gli guidava ogni passo. La stava preparando con le sue stesse mani. Quelle ripetute, temerarie incursioni nel regno della necessità sarebbero state ben ripagate con l’errore. Perché ogni decisione doveva pur contenere un errore, una dimenticanza: il mondo non poteva essere interamente rinchiuso nel condotto di un ragionamento.
Non ti salverai. La sterile Atena dagli occhi di civetta – non è neanche una donna! – ti sarà cattiva consigliera. L’errore ti aspetta, tragico – le grida ormai salivano lontano, verso il mare – nel momento in cui la terra amata segnerà l’orizzonte del ritorno. Non la mia regalità profanata e poi buttata via, né il sangue di mio fratello il toro, né la dignità del popolo dell’isola, ma tuo padre Egeo, che veneri sopra ogni cosa. Dimenticherai di issare la vela bianca, segno del miserabile successo che hai ottenuto su di noi. Il vecchio riconoscerà da lontano la vela nera della sconfitta e tu stesso vedrai dalla rapace nave la disperazione gettarlo a precipizio dalla rupe nel fondo del mare.

Le parole si perdevano verso l’oriente, dove ormai l’alba annunciava il levarsi del sole. Ed ecco guardando in quella direzione, il segno del mutamento che mai prima aveva osservato con i propri occhi: il sole abbagliante aveva abbandonato il suo posto nel Toro e ora sorgeva nel luogo dove a notte brilla la costellazione dell’Ariete.
Aveva dunque intuito l’era nuova che stava arrivando, seppure l’amore le aveva nascosto l’evidenza dell’inganno. L’asse del mondo era stato sradicato, e il rito dello sradicamento dell’albero, che ogni Cretese conosceva bene, adesso aveva un senso compiuto.
Arianna fu scossa da un fremito d’orgoglio, da un flusso di simpatia verso ogni cosa che le stava intorno. Si lasciò cadere la veste sui fianchi, eresse lo splendido seno alla maniera delle donne cretesi e protese le braccia nel gesto della signora del labirinto. Gli antichi suoni tornarono a fluire e si udì provenire dal profondo del bosco un tintinnio zoppicante, frenetico, penetrante, stralunato. Il carro di Dioniso avanza, al traino di quattro pantere, e intorno tripudia il suo seguito di sileni e menadi scarmigliate, sanguigne, miraggio del dio che ride e che balla. Arianna già scorge la veste color zafferano, i coturni orientali, i neri capelli del beato danzatore. Tutto torna a fluire intorno alla fronte taurina del demone liberatore. Scompiglio d’intesa. Fiorente, desiderato, amato germoglio, folleggiante, invasato, vendicatore, splendido come fuoco, adorno di grappoli, donatore di vino, possente rimedio agli affanni, amante della carne cruda, pura luce del giorno, nato due volte per donare gioia agli uomini e alle donne, scuotitore della terra, memorabile seme di molti nomi.
Dioniso non promette mutamenti di fortuna e rischi di morte eroica, non ti porta via alla terra nella quale sei nato. Lui è ovunque propizio e reca con sé per Arianna una splendente corona nuziale. La fece il buon Efesto con fine cesello nel buio delle sue officine, con fili d’oro e rubini dell’India disposti in forma di rose.

Arianna con corona - Disegno di Andrea Mattiussi
Arianna con corona – Disegno di Andrea Mattiussi

Arianna ora è sposa e di nuovo regina. La sua corona splende nel cielo settentrionale e la stella Alphecca ne è la gemma più chiara. Atene è ancora lontana, ma un giorno vi giungeranno, i divini signori della gioia e della vendetta, dell’entusiasmo e della salvazione. Arrivano in segreto, perché chi comanda li teme. Là sono accolti dai contadini all’inizio, e si insediano nel cuore delle donne. A loro indicheranno misteriose vie di rinascita; a ciascuno insegneranno il mito del labirinto e la via per uscirne. Ma solo a chi vorrà percorrere la strada fino in fondo. Agli altri basterà costruire un futuro concreto e possibile a forza di ingegno, sotto la cupa serenità degli astri.

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