Prefazione de La congiura Fornaciari (capitolo 12, segue dal capitolo 11)
A Bernardino, come a Giulio Cesare, viene facile il genere del commentario; trattandosi di una congiura – così dicono i miei colti signori – il suo modello non può essere altri che Sallustio Crispo. Voi sapete che Sallustio è di moda? L’ha tradotto il tragediografo Vittorio Alfieri una decina di anni fa. E, scusate se non è tutta farina del mio sacco, ma era logico che il nostro vescovo guardasse a Catilina come a un modello della storia che voleva raccontare, attratto, oltre che dalla bellezza del racconto, con la quale si sentiva in grado di confrontarsi per la sua abilità di latinista, anche dalla somiglianza delle vicende narrate, dove giocano i medesimi ingredienti: un uomo dissoluto ma anche risoluto a non farsi schiacciare, sovvertimento politico e sociale, un governo e un ambiente cittadino che reagiscono e, alla fine, la sconfitta del cospiratore.
Le somiglianze però sono superficiali. Fornaciari e i suoi compagni sono gente braccata, poveracci senza alcun ideale, e la loro insurrezione – a prescindere dalle fantasie del capo, che in fondo qualche fine politico se lo figura – non va oltre i motivi del riscatto e del loro ardimento criminale. Anche la volontà nel portare fino in fondo l’azione intrapresa mi pare limitata, tanto è vero che non vedono l’ora di scendere a patti pur di venirne fuori con le proprie gambe; la stessa resistenza di Francesco nel farsi convincere assomiglia piuttosto al broncio ostinato di un ragazzo che non alla volontà di uno che ha giurato di vincere o morire. Le autorità , a loro volta, sono disposte all’indulgenza pur di cavarsela con poco danno. Si è saputo che l’uomo inviato dal Legato a Sinigaglia per sbrogliare la faccenda aveva un’istruzione segreta nella quale gli era raccomandato di usare la mitezza nel caso che non fosse possibile stanarlo dalla rocca con le maniere forti.
Insomma, il paragone con Sallustio non va oltre l’intenzione di chi lo ha proposto, quando poi sussista. Qui si perde l’atmosfera cupa del modello antico, repressione inesorabile da un canto, slancio eroico dall’altro: e il racconto assume il tono di una cronaca domestica; sembra di assistere a un’opera di fantasia, in cui attori e comparse si occupano dei casi loro sapendo che in quel cerchio si risolve la realtà della vicenda presentata.
Questo accento da cortile del racconto fa pensare che chi ha scritto avesse in mente di metterci un peletto di ironia: le due realtà a confronto, da una parte i capoccioni e dall’altra i malviventi, si prestavano al sorriso, tanto più che le persone erano note; i caratteri, le facce, le espressioni di ciascuno risultano evidenziate dal confronto, e riprodotte in movimenti semplificati come avviene in un teatro delle marionette.
Non mi pare tuttavia che questa storia possa essere soltanto un svago letterario da leggersi con un’ombra di sorriso: una certa intenzione maliziosa si può cogliere in più di un passaggio; e l’oggettività , il semplice portare i personaggi allo scoperto, appare in realtà più tendenziosa di quanto lo sarebbe un esercizio apertamente critico; tanto è vero che quei miei signori nel leggerla a volte sorridevano, altre volte si sdegnavano non poco per la parte dell’inetto che l’anonimo riserva alla nobiltà locale. Pensate che l»’assiduo» castellano Bernardino Antonelli, «governator dell’armi, del porto capitano» fosse poi tanto contento che il fatto di aver perso la fortezza per opera di quattro scalcagnati avesse trovato la via della stampa e pervenisse nelle mani di cento persone del suo rango che sapevano leggere il latino?
Ma a forza di parlare di Sallustio e Catilina non vi ho detto la cosa più importante: che il Vescovo racconta una vicenda alla quale non ha preso parte; addirittura non era presente. E sapete dov’era? Non tanto lontano da non potere scendere a Sinigaglia in meno di due ore: si trovava a Mondolfo. Eppure, nonostante richiesto dalle autorità più alte e dal pericolo che corre la città della sua sede episcopale, per i tre giorni dell’occupazione non si fa vedere e neanche nei giorni successivi ci degna della sua presenza: passata la buriana, se ne va tranquillamente a Chiaravalle dove resterà per una decina di giorni.
Può essere che un vescovo Honorati così protagonista si metta a raccontare una vicenda in cui non c’entra niente? Eppure l’idea di attribuire il libro a lui non ne risulta indebolita: a mio parere, al contrario, ne risulta perfino rinforzata. (continua…)
(Prefazione a La congiura Fornaciari, capitolo 12, segue dal capitolo 11, continua nel capitolo 13)
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