“Le otto montagne”, di Paolo Cognetti (Einaudi 2016, pp. 288, € 18.50)
di Alessandro Cartoni
Più che una storia familiare o un romanzo di formazione o il percorso di un’amicizia – il modello decarliano di “Due di due†è esplicitamente dichiarato – “Le otto montagne†di Paolo Cognetti appare come la ‘narrazione di una percezione’, la storia del formarsi di una diversa e necessaria lettura del mondo. L’esile plot costituito dallo sviluppo di una amicizia dall’infanzia all’età adulta tra un ragazzino di città e un altro di montagna non deve far dimenticare che il cuore del testo è e rimane la montagna. Cosa appare tra le sue creste? E perché si decide di staccare col mondo che sta in basso? Che cosa si trova o si nasconde nella solitudine delle altezze? Sono queste le domande che il testo spinge a porsi e proprio in questa valenza si potrebbe parlare di romanzo mistico o a dimensione religiosa. Cognetti nel suo blog cita anche Hesse ed è come se da questo riferimento una intera prospettiva romantica sia di fatto attualizzata e riproposta.
Disse: – Non l’hanno mica scelta. Se uno va a stare in alto, è perché in basso non lo lasciano in pace.
– E chi c’è in basso?
– Padroni. Eserciti. Preti. Capireparto.
Tra le virtualità del romanzo c’è anche quella di saper fondere in modo soggettivo la scrittura di paesaggio con l’analisi interiore. Un elemento caratterizzante di questo paesaggio interno/esterno è il bosco, dove appaiono animali e alberi che sono le creature originarie, quelle che indicano all’uomo la via del comportamento e del cammino. Nel bosco, dice Cognetti, “bisognerebbe imparare a entrare (…) non solo con attenzione ma anche con rispetto e silenzioâ€.
La Wanderung romantica è invece attuata dal confine celeste, dal tetto del mondo, il Nepal, dove il protagonista va a passare il suo periodo di riflessione e dal quale tornerà maturato e con la coscienza rischiarata.
Una montagna dalle pecore azzurre, scimmie simili a babbuini che intravedevo nel bambù, e contro il cielo, lente, le sagome lugubri degli avvoltoi. Eppure mi sentivo a casa. È la quota a cui appartengo e che mi fa stare bene. Pensavo a questo quando calpestai la prima neve.
Alla fine della lettura quello che resta è un sentimento di pienezza e di grande calma, la sensazione di aver recuperato due fondamentali vettori della percezione: la dialettica interno/esterno e l’altra consustanziale di alto/basso. Se le cose vere stanno in alto e presuppongono un grande tirocinio, una specie di cammino mistico di allontanamento dalla moltitudine e dalla chiacchiera, altrettanto importante è che il fuori possa portare la sua ricchezza nel dentro attraverso la molteplicità dell’esperienza.
E diciamo: avrà imparato di più chi avrà fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?
Ringraziamo per questa corrispondenza l’amico Alessandro Cartoni.
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