“Works” di Vitaliano Trevisan (Einaudi, 2016)
di Alessandro Cartoni
 Chi abbia letto i precedenti volumi di Vitaliano Trevisan caratterizzati da un ritmo bernhardiano e da un famelico rodimento interiore rimarrà un po’ spiazzato da questo ultimo “Works†che assume le fattezze di un memoir eterogeneo e particolarmente ‘militante’, dove il qualificativo è da intendersi, ovviamente, in senso assolutamente trevisaniano e radicalmente postideologico. In ogni caso dentro questa storia personale, l’autore fa emergere, come in un cartina di tornasole, l’autobiografia del Nord Est e anche quella dell’intero paese nel passaggio traumatico dalle illusioni degli anni ’70 agli anni Zero. Alimentato dalla necessità dell’acquisto di una ‘bicicletta da maschio’ che il magro stipendio del padre, il poliziotto Arturo, non può soddisfare, il lavoro incontra il giovanissimo Trevisan e Trevisan incontra il lavoro: da qui nasce un corpo a corpo che ci conduce per quasi settecento pagine fino alla scoperta della letteratura, sorta di exit strategy che non consola, ma se non altro permette una percezione obliqua delle cose. Del resto se l’uomo lavora è perché tutta la vita nell’Occidente avanzato è intrisa di lavoro, è essa stessa lavoro, tant’è che per tollerarla la gente, soprattutto i Veneti, debbono contrastarla con una dieta alcolica.
Forse dovrei iniziare a bere, così per cercare di capire e magari sviluppare un po’ di empatia, ma l’alcol, che ritengo la peggiore, la più subdola e ipocrita delle droghe, non mi ha mai tentato. Nemmeno ora, che ho scelto di vivere isolato, in una contrada semiabbandonata di un piccolo e sconosciuto paese di montagna, dove, quando vado a fare la spesa e passo al bar per un caffè, mattino e pomeriggio che sia, ho sempre l’impressione di essere io, cioè l’unico a non avere alcol nel sangue, a vedere la realtà con occhio distorto.
Geometra per condanna, Trevisan incontra una miriade di mondi lavorativi più o meno leciti, quasi sempre privati delle più semplici tutele di sicurezza, dalla fabbricazione delle gabbie per uccelli, alle pericolose scorribande sui tetti dei lattonieri, attraverso la progettazione di cucine componibili fino alla fabbricazione del gelato, senza dimenticare la paradigmatica parentesi del portiere di notte. In questi contesti agiscono numerosi individui coi loro tic, abiti, portamenti, eloqui, popolando una commedia umana tipica, grottesca, ma sempre intrinsecamente attuale. Il passaggio dai traffici delle sostanze allo standard della Qualità Totale, fino alla precarizzazione delle attività e delle vite si fa qui autentico racconto, assume a volte i toni dell’epica, più spesso dell’elegia. Dunque come moderno dantesco viaggiatore Trevisan ci fa entrare nell’inferno e nel purgatorio del lavoro contemporaneo, ne sonda gli spessori, ne valuta il senso, ne sublima l’essenza, rincontrando persone oppure perdendole definitivamente, misura alla fine la propria capacità di reggere al mondo e quella del mondo di reggersi su di lui. In fondo quando tutto pare perduto, attraverso una passeggiata in palude, dentro gli scampoli di una pausa, arriva la scrittura, la voglia di raccontare e di percepire. La lettura diventa anch’essa una passione divorante, una sorsata di aria sempre più effervescente di cui non si può fare a meno. Poi alcune occasioni per uscire fuori dalla condanna degli “Works†con un piccolo romanzo, infine col teatro, nella convinzione che l’Italia non è altro che “un conglomerato di luoghi comuni†e che “prenderli a martellate†rimane uno dei compiti autentici della letteratura.
Ringraziamo l’amico Alessandro Cartoni per questa corrispondenza.
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