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Il gabinetto del dottor Kafka

Il gabinetto del dottor Kafka_Francesco PermunianIl gabinetto del dottor Kafka non è lo studiolo privato del grande scrittore praghese. È un cesso della stazione ferroviaria di Desenzano, un orinatoio che nelle pagine dell’ultima prova letteraria di Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka appunto (Nutrimenti, euro 15), diventa il fulcro d’una serie di storie vergate con impietosa e grottesca ironia. Quella della latrina kafkiana intanto: pare che di lì ci fosse passato, arrivando da Verona, l’autore delle Metamorfosi – stando almeno a quel che dice Winfried Georg Sebald in Vertigini: e così, con un frizzo impudico, quasi senza che il lettore se ne avveda, il narratore (ma direi pure l’autore medesimo) tira le somme di un’ascendenza artistica ideale: da Kafka, appunto, allo scrittore tedesco ossessionato dal tema del ricordo e di una memoria innervata da caustici umorismi. Anche questo di Permunian, come recita il sottotitolo, è un Piccolo memoriale illustrato di ombre e fantasmi nel quale ‘lo scrittore di bambole’ rievoca, facendo della rimembranza un pastiches a volte farsesco, i volti e le movenze di amici cari, di apprezzati artisti (Pasolini e Zanzotto, a esempio, o il fotografo senigalliese Mario Giacomelli), di parenti e conoscenti.

Tutti, anche se a diverso titolo, sono fantasmi che vengono a scavare i sogni del narratore-autore (in questo caso la sacrosanta distinzione narratologica sfuma, poiché anche la struttura del romanzo è messa in crisi da un avvicinamento più o meno dichiarato al memoir); è piuttosto la qualità di questo scavo a costruire lo spessore del testo: in un tessuto narrativo, come quello di Permunian, dove i confini tra il reale e l’immaginario non solo si sovrappongono ma, spesso, cambiano di statuto (significativo, in tal senso, è questo rigo posto in soglia all’opera: “tutti i personaggi del libro esistono o sono esistiti realmente. Anche quelli inventati dall’autore”), cercare di seguire, tra le pagine, il filo rosso di una verosimiglianza ragionevole è perfino ridicolo; meglio lasciarsi condurre per mano su passaggi sempre precipitanti verso i vicoli bassi dell’assurdo e del grottesco. Il varco dalla sfera del plausibile a quella dell’impietosamente inaudito avviene con una profonda leggerezza, come a scendere uno scalino più alto di quello che ci si aspetti, lo scalino che ci fa cascare dal piano della realtà a quello degli incubi più bizzarri. Così i volti che incontriamo – che siano di persone reali o di fantocci fatti con la polpa di una fantasia bizzosa – ci vengono addosso con la potenza surreale di una realtà decaduta (o innalzata) a allucinazione: memorabili sono i personaggi dello zio Bertoldo Borletti (crocesco nome parlante, come spesso avviene in Permunian) invaghito della zingara Zefirina e seppellito con abiti alla Fred Buscaglione; o la figura di Carmen, amica d’infanzia del narratore, scombinata e infelice malata di mente che, per sfuggire alle violenze paterne, fa baracca e burattini e si trova un posto nel mondo come ballerina di flamenco nelle palestre e nelle sagre di paese. E – per dire quel repentino passaggio dal reale al grottesco – sia sufficiente riferire un breve episodio: Carmen sta ballando, s’accorge che tra il pubblico vi è il padre stupratore; lei piglia il microfono e annuncia: “‘Signori, il demonio sta calando sulle mie spalle ed io non riesco a reggerne il peso, non riesco più a stare dritta!’ Dopo di che sollevò le gonne e si accucciò, cominciando a pisciare abbondantemente sopra il palco”.

Il gabinetto del dottor Kafka è anche una rassegna del ricordo, una memoria di amici e di maestri andati via da questo mondo pervertito. E se defunti e vivi, tutti assieme, son fantocci che ingombrano i sogni del narratore (“un teatrino mentale in cui i vivi e i morti si scambiano di continuo le parti”), e da essi non ci si può liberare, se il mondo, anche quello della cultura (forse soprattutto quello), è ormai scaduto a latrina, se gli esseri umani, dunque, soffrono di un dolore insensato, tanto informe da risultare mostruoso e comico a un tempo, resta come unico gesto liberatorio il fracasso d’una risata ironica, quella stessa che il narratore racconta di aver gettata in aria ai funerali di Maria Corti: “un’irrefrenabile e inopportuna risata, filologicamente scorretta, che fece inorridire tutti gli accademici d’Italia lì convenuti”. Catarsi autentica, in grado essa sola di ricomporre, per il tempo d’un ghigno, l’angosciante contrasto col mondo dei vivi, e dei morti: “un’altrettanto forte e cristallina risata – filologicamente inoppugnabile – si levò all’improvviso dalla bara di Maria Corti”.

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