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Santarossa e la bestemmia dell’uomo surmoderno

Santarossa e la bestemmia dell’uomo surmoderno

di Giacomo Verri

(già apparso su l’Unità del 22 ottobre 2012)

C’è una terra intrisa d’acqua oleosa, scarnificante, scesa da un “cielo color dei denti”. Incombe tra le nuvole un grigio fondiglio che minaccia di ingrossare e di rovesciarsi sul mondo. E sul mondo ci cammina un uomo, solo, con la propria disperazione rispecchiata dalle lamine delle pozzanghere. Intorno s’ergono il cemento e il ferro. Massimiliano Santarossa, già cantore della periferia del nord-est in Storie dal fondo e Gioventù d’asfalto, racconta, in Viaggio nella notte (Hacca, pp. 144, euro 14), l’ultima e irredimibile giornata di un operaio. Non c’è mai pietà, in questo romanzo, mai comunione né riscatto. Gli uomini vanno dentro alle fabbriche, non parlano, non ridono, non sentono, inghiottiti dalle «prigioni quotidiane» che «hanno la forma di balene senza fine». Nelle pance dei leviatani, e anche fuori, la solitudine è sfrenata; manca l’amore del prossimo, dei fratelli, dei genitori, dei figli, e manca la speranza di riporre i passi futuri nei rigidi ma rassicuranti confini di un’ideologia; lavora, soffre l’operaio, e non gli riesce di guardare fuori di sé, perché ogni cosa torna al soggetto, tra miseria e squallore: «È ormai chiaro che tutto a questo mondo si fa sangue del nostro sangue, ossa delle nostre ossa, anima della nostra anima, denaro del nostro denaro, fede della nostra fede, tutto ciò che produciamo diviene noi, e ci comanda, e ci guida». L’operaio surmoderno è consumatore, vittima, schiavo senza coscienza; il «sangue del nostro sangue» non ha più nulla a che fare con quello cantato da Fausto Amodei in Per i morti di Reggio Emilia. Qui l’operaio è uomo decaduto allo stato primevo, preda di mostri d’acciaio, come il preistorico fu in balìa di lupi e orsi spelei; qui è scritta «la colpa del padre che ricade sul figlio», non una colpa epica e fatale, ma uno scotto ottuso, tetragono, la colpevolezza discesa da un consumismo ormai fisiologico. Così l’antieroe di Santarossa entra al supermercato, il tempio dove «devi lasciare ogni cosa che possiedi per poterti sfamare. Perché mangiare e bere non è più un diritto. Mangiare e bere è un dovere, ma non il dovere della sopravvivenza, bensì il dovere di stare in piedi per continuare il gioco della produzione e dello sviluppo».

L’uomo consumatore consuma infine se stesso; l’eccesso di ego su cui poggia l’estrema società ha imprigionato l’io sotto un cielo muto, un buco nero infinito sovrastante la periferia, «questo non luogo, questo risultato immorale, questo contenitore di uomini fatti a somiglianza di un dio che ha permesso che tutto accadesse». Il cielo stesso è inabitato da dio, dagli angeli, dalla madonna. O se ci sono, si nascondono una nuvola più sopra, immaturi e neghittosi. È colpa loro se il povero soffre, se il derelitto sta ai margini. E scappano anche gli ‘dei in terra’, i padroni, i politici, «tutti coloro che hanno creato questo sopruso chiamato industrializzazione».

Restano gli ultimi, avanzi d’uomo, stracci. Occupano dei non-luoghi, le fabbriche, il bar, l’opaco monolitismo delle case dei sobborghi – le Case Rosse, quelle di Villanova di Pordenone. Nulla resta di familiare, la geografia è alienata, lo scenario ricorda un incubo post-storico con una traccia di assurdo kafkiano, non spinto al parossismo perché in fondo il protagonista sa dov’è il Bene e dove il Male. Ma non ha chiavi per trarre il primo e scacciare il secondo. Tolta la fede e l’ideologia, gli unici spezzati conforti sono la droga e il calore di una prostituta.

Il nichilismo preme ogni pagina senza il medicamento dell’ironia, quell’ironia annidata nella lingua. Gli stilemi e le marche linguistiche non sollevano quasi mai il fumo cattivo di questa storia. Santarossa sa invece quant’è ingannevole il lessico quotidiano: il cigolìo dei capannoni «è l’urlo di mostri enormi, chiamati fabbriche nel tentativo osceno di non spaventarci troppo». Le parole tra le persone non hanno senso ma dicono qualcosa di laido e di incomprensibile. E infine, anche la parola più sacra, quella di Dio, finisce dissacrata e risemantizzata. L’autore scava a mani avide nel linguaggio biblico rovesciandolo, bestemmiandolo: «si faccia vino e sangue e pane e carne questo corpo, e prendetene e mangiatene vermi, a piena bocca»; utilizza modi apocalittici, riscrive i comandamenti per cavare un senso, una ragione al delirio chiamato vita. Ma non c’è risposta: «E allora perché – domanda –, perché mi hai abbandonato in questo inferno assieme a milioni di altri come me?».

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