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Il giardinere della Jin Tak

Il giardiniere della Jin Tak

Racconto di Eugenio Giudici (da “Storie Cinesi”)

La Jin Tak sorgeva di qua dalla Hong Qi Road, a fianco della Coca Cola. Dall’altra parte del viale c’era la Motorola e, tra la sede stradale e le costruzioni, un’ampia striscia di verde pallido e stento che sbiadiva sotto il celeste cielo della Cina.
La fabbrica si disponeva su sei piani di qua e di là di un cortile, sul fronte gli uffici e sul retro un edificio di servizio con la centrale termica, l’officina, il refettorio per i lavoratori e l’accesso alla serra. Nel mezzo del cortile una fontana ovale che non aveva mai visto l’acqua; tutto intorno al bordo, che alla fin fine serviva solo come panchina durante le pause, c’erano grandi vasi di cemento, disposti ad arte, con le piante che il signor Wang manteneva rigogliose.
Come tutte le aziende cinesi, anche la Jin Tak aveva una serra dove un amorevole giardiniere si prendeva cura delle piante che venivano distribuite nei reparti e negli uffici per il benessere dello spirito dei lavoratori.
Il signor Wang non s’era fatto conquistare dalle nuove mode. Sebbene lavorasse in una fabbrica che produceva proprio abiti italian style, continuava ad indossare il tradizionale completo giacca e pantaloni blu della Grande Rivoluzione Culturale che ormai non si trovava più tanto facilmente. Aveva tradito solo il berretto per un vecchio Panama che lo riparava dal sole e indossava un grembiule verde nelle cui ampie tasche teneva i suoi attrezzi da lavoro.
La serra occupava lo spazio oltre l’edificio di fondo, solo una metà, perché l’altra era usata come deposito del carbone per alimentare le caldaie, quando ancora non era stato sconfessato dalla direzione della joint venture italo-cinese, a favore del gas naturale.
Quando lo riteneva opportuno, il signor Wang riempiva due grossi annaffiatoi e vagava per uffici e reparti, concedendo la giusta misura d’acqua alle piante. Entrava direttamente, senza chiedere permesso, e si occupava della flora di fabbrica ignorando qualsiasi altro essere vivente.
Così fece un giorno infilandosi nel mio ufficio. Richiesto di passare in un altro momento perché si stava tenendo una riunione di lavoro molto importante, non fece una piega e raggiunse le sue piante comunicando che quello era il momento giusto di bagnarle, altrimenti avrebbero sofferto. Irrorate piante e pavimento se ne andò, minacciando di tornare più tardi perché “gli sembrava che le sue protette non stessero bene e doveva esaminarle con più calma quando non ci fosse tutta quella gente”.
Per entrare nel suo regno bisognava invece chiedere il benestare, andarci senza sigarette e il “Barba” senza la pipa, perché faceva male alla vegetazione.
Ero l’unico che fumava la pipa che costituiva un’eccentricità da western people. Siccome in Cina i cognomi sono un numero limitato e tutti quanti più o meno si chiamano nello stesso modo, spesso la gente riceve un soprannome, e allo stesso modo gli occidentali, con quei nomi assolutamente impronunciabili. L’ingegnere lo chiamavano Quattrocchi per via degli occhiali ed io, appunto, il Barba.
Una volta la rasai via totalmente e andai baldanzoso dalla segretaria di direzione a chiedere come mi chiamavano adesso.
«Pipa.» Mi rispose Ginny.
Allora rilasciai crescere la barba.
Un giorno mi accorsi che qualche operaio portava una pianta da casa e la lasciava davanti all’entrata della serra con un bigliettino arrotolato e delicatamente infilato tra gli steli. Con Ginny che faceva da interprete, mi recai dunque nel regno del signor Wang e, ottenuto il permesso di entrare, gli chiesi come mai la gente gli regalasse delle piante, a lui che non ne aveva proprio bisogno…
«Non me le regalano.» Rispose. «Stanno poco bene e le portano qui per essere curate.»
Mi mostrò uno spazio speciale riservato proprio alle piante dei lavoratori e ce n’erano parecchie. Una serra è sempre un luogo meraviglioso, non importa se è costruita alla buona, con vetri scompagnati e sporchi. La natura disegna un arredamento fantastico che il giardiniere si limita a spolverare e riordinare, ma il signor Wang riteneva se stesso qualcosa di più, era un medico delle piante e la serra una clinica dove rimetterle in salute. Si aggirava tra vasi e banchetti prendendosi cura delle creature vegetali senza affetto apparente, ma con grande serietà professionale. Ogni tanto si sedeva senza far nulla e guardava silenzioso i suoi pazienti dedicando uno sguardo specifico ad ogni virgulto.
«Parli alle piante?» Gli chiesi.
«No.» Rispose. «Le piante non hanno orecchie, non sentono niente, e io non sono così scemo da parlare alle piante. Lo so che alcuni lo fanno, ma sono matti.»
«Ah! Certo, certo.»
«Però catturano i pensieri. Allora mi siedo qui e penso a loro, una per una, e qualcuna sta meglio anche solo per questo.»
«Telepatia? E cosa dicono le piante?»
«Non lo so.» Rispose. «Io non ho lo stessa capacità, non sento i pensieri. Se li sentissi sarei matto, no? Però capisco quando stanno male.»
Le sue piante non erano particolarmente rigogliose, ma mi parve che tutte reggessero i loro steli con una certa vigoria, le foglie erano belle, sane e disposte con ordine e buon equilibrio, probabilmente frutto dei sapienti colpetti di cesoia del signor Wang e non di un meraviglioso processo di autogestione.
Avevo un ufficio grande e disadorno in cui c’era l’unico computer in grado di dialogare col mondo via BBS e una imponente scrivania posta tra due finestre che davano sul cortile. Giudicando la posizione piuttosto infelice, avevo fatto spostare la scrivania sul lato destro, in modo che la luce cadesse meglio e chiesto al falegname che appendesse alle mie spalle una enorme carta della Cina con la divisione amministrativa.
L’uomo venne per mettere i tasselli al muro con i ganci per appenderla e si portò dietro il signor Wang come aiutante. Non appena furono entrati, notai che i due confabulavano con tono di disappunto e percepii più volte la parola puhao che ormai conoscevo e voleva dire “non buono”. Ricorrendo a Ginny, venni a sapere che i due ritenevano la nuova disposizione assolutamente puhao perché l’uomo del feng shui non l’avrebbe approvata, mentre la precedente disposizione era stata scelta secondo le sue indicazioni.
Il falegname praticò i fori per i tasselli con un trapano fuor di misura e fu felice di mostrarmi che vi scorrevano come se fossero oliati, mentre il giardiniere osservava perplesso le due piante che ornavano la grande stanza. Finalmente la carta gigante della Repubblica Popolare fu appesa e cercai di collocare le piante a lato, presso la finestra, dove pensavo che prendessero la migliore luce.
Il signor Wang appariva scontento e alla fine decretò che non era convinto e doveva rifletterci bene.
Il giorno dopo le piante erano sparite e l’ambiente, già povero, appariva veramente disadorno. Siccome nessun altro osava toccare le piante, era chiaro che il signor Wang era venuto a portarsele via.
Comparve a mezza mattina con una gran pianta dalle foglie piccole e allungate. Senza proferir verbo la collocò lontana dalla scrivania, presso l’altra finestra, ed uscì.
Ginny riferì di lì a poco che, andandosene, aveva detto che forse quella avrebbe potuto resistere. Almeno per un po’. Ma bisognava ruotare il vaso per un quarto di giro ogni giorno perché le foglie mantenessero una disposizione armoniosa. Si raccomandava di farlo alla sera prima di lasciare l’ufficio. Gli mandai a dire che due piante avevo prima e due ne volevo adesso.
Passato qualche giorno, la seconda pianta non era ancora comparsa, per il giusto decoro di quello che sembrava un ufficio immenso, ma miserevolmente vuoto. Venne inviato quindi un altro messaggio al signor Wang perché rispettasse gli impegni presi.
Arrivò subito in ufficio a mani vuote e scosse la testa al vedere che la sua protetta era stata spostata a fianco della scrivania vicino all’altra finestra, emise poche parole tra le quali si distinse nettamente un puhao ripetuto varie volte e se ne andò. Venni a sapere che era molto scontento, così non andava affatto bene, perché la sua pianta era trattata male e c’era ben poco da fare per far cambiar testa al Barba. Qui entrò in scena il signor Jiang, il capo degli operai, il sindacalista. Un ometto che trascinava una gamba blesa, praticamente non faceva alcun lavoro, ma pur non facendo parte della dirigenza della joint venture, era l’unica reale autorità cinese nella Jin Tak. Si ricorreva a lui raramente e diceva la sua solo in occasione della determinazione del dividendo da distribuire tra gli operai una volta l’anno. Non ostante la gamba inferma e l’aspetto generale molto malandato, il signor Jiang era un tipo assai energico e il rispetto che riscuoteva dal personale cinese era assoluto. Gli spiegai tutta la storia e sottolineato bene che il decoro dell’ufficio era una cosa fondamentale perché vi si ricevevano ospiti di riguardo e clienti importanti che potevano determinare il successo o meno dell’attività. Perciò lo pregai di intervenire.
Per tutta risposta il giorno successivo ebbi la sorpresa di trovare il mio ufficio totalmente cambiato. Il pavimento era coperto di tappeti, il tavolo riunioni era più grande con importanti sedie dotate di cuscinetto e braccioli, la scrivania sostituita con un pezzo d’antiquariato che era stato prelevato dall’ufficio del Direttore Generale cinese, un altro che non faceva niente ma doveva pur esserci, e un prezioso mobile secretaire aveva la stessa provenienza. Una coppia di enormi vasi dall’aria autentica, non so di quale dinastia, disposti ai lati della scrivania, che aveva anche la sua poltrona di adeguata importanza. Alle spalle una grande bandiera cinese fiancheggiata da due italiane più piccole e poi un armadio, la libreria con un mobile consolle sulla quale troneggiavano i monitor dei computer e alle pareti dipinti cinesi a inchiostri tra cui uno con un guerriero minaccioso per tenere lontano gli spiriti. Quello lo conservo ancora.
Insomma, l’ufficio non appariva più il deserto di Gobi e c’erano persino vezzose tendine di pizzo alle finestre, aveva preso un aspetto molto cinese. Con qualche piccolo aggiustamento – via le tendine e i poggiatesta di pizzo – sarebbe stato elegante e lussuoso, ma di piante ce n’era una sola, era tornata presso la finestra originale e messa in un gran vaso di ceramica blu. Ne rimasi indispettito, perciò mi tirai dietro Ginny e andai difilato dal signor Wang per ribadire che volevo un’altra pianta.
Mi rispose disarmante che anche lui sapeva che quella pianta non si trovava bene tutta sola in quell’ufficio, però non ne trovava un’altra che potesse resistere in quella situazione. Tuttavia ci stava lavorando.
Passò un giorno, ne passarono due e un bel mattino mi accorsi che nel gran vaso della pianta ne era stato collocato un altro, piccolissimo e di ceramica verde, con un bonsai.
Non riuscii ad apprezzare la bellezza di quella miniatura perché mi sentii preso in giro. Convocai quindi il giardiniere e gli feci un lungo pistolotto che Ginny faceva fatica a tradurre. Gli ribadii che non mi andava di essere preso per il naso e che doveva aver rispetto per tutti, non solo per le piante, e ancor di più per i dirigenti stranieri. Aggiunsi anche che non amavo i bonsai. Li consideravo il frutto di una violenza continuata su un essere inerme come una pianta e non capivo nemmeno come lui potesse farlo, reiterando giorno dopo giorno la cattiveria delle continue potature, quando dichiarava, e il suo comportamento lo dimostrava, di tenere così tanto al benessere delle sue piante. Gli dissi che non gli credevo, che non volevo vedere bonsai nel mio ufficio, che rappresentavano la sofferenza della costrizione, che mi stava raccontando un sacco di fandonie perché se lui non percepiva il grido di dolore che veniva da quella piantina martoriata, allora non era possibile che capisse quando una pianta si sentisse bene o male. Me ne portasse quindi una come si deve o sarei andato di persona a prelevarla dalla sua serra.
Quando ebbi finito il signor Wang prese la parola.
Non gli importava niente che stessero bene o no, gli importava solo che fossero belle, per questo la loro salute era fondamentale. Se una pianta non è bella non serve a niente ed è meglio non metterla in mostra. Lui le curava per il nostro piacere e non per il loro. Quanto ai bonsai sapeva benissimo che soffrivano, il loro grido era piccolo piccolo e si percepiva appena, in ogni caso non gli importava proprio niente perché il frutto della loro sofferenza era la bellezza straordinaria del risultato. Perseguiamo la bellezza, disse, e per averla occorre accettare la sofferenza, poi, quando possiamo goderne, ogni dolore che l’ha prodotta scompare e si perde per sempre.
«Pensavo che amassi le piante.»
«Amo gli esseri umani.»
«Allora portami una pianta grande, sia come sia, e porta via il tuo bonsai. A me quello che gli fai sembra solo una sottile cattiveria.»
«Tu non apprezzi abbastanza la bellezza.»
«Può darsi.»
«Ma se i tuoi visitatori sono cinesi se ne accorgeranno e penseranno che dove non c’è abbastanza considerazione per la bellezza, si producono cose che ne mancano. Di bellezza. E noi facciamo abiti, è nostro dovere farli bellissimi, altrimenti perché pagare un prezzo così alto? Non si fideranno e faremo cattivi affari.»
«Ah sì? E allora?»
«Allora è meglio rinunciare a una pianta non bella.»
«No. Ne metterai una bella. La cambierai tutti i giorni così potrai curare i danni nella serra e l’ufficio farà la giusta figura anche con i visitatori cinesi. Il problema è tuo. Domani vado in Italia per due settimane. Puoi cominciare quando torno.»
Il caparbio signor Wang se ne andò col suo bonsai reggendo il vaso a due mani allo stesso modo cerimonioso con cui i cinesi ti danno il biglietto da visita e pensai di averlo messo a posto, anche se dovevo ammettere che la sua difesa era stata stimolante. I cinesi hanno sempre un’angolatura speciale nella loro logica e per capirli ci vuole molto tempo. Non sapevo se l’avessi offeso, di certo sentivo che Ginny in qualche modo parteggiava per il giardiniere, perché traduceva con molta enfasi le sue parole, anche se non si permetteva di fare commenti. Sulle prime mi ero detto che la disputa era piuttosto infantile, ma c’era in gioco la mia faccia, e ciò ha la sua importanza presso i cinesi. Me ne tornai quindi in Italia dimenticando il signor Wang e la sua ostinazione nel non voler rallegrare l’ufficio con le sue piante.
Due settimane dopo ero di ritorno, scombussolato dal lungo viaggio aereo e dal fuso orario, arrivai in ufficio con in testa di tutto, meno che la disputa col signor Wang. Non mi accorsi dello sguardo divertito dell’ingegnere che dirigeva la fabbrica e col quale aveva stretto un’amicizia tra esiliati in Cina. Pensai che fosse contento per il mio ritorno.
Lui e Ginny mi seguirono mentre entravo nell’ufficio; ero appena arrivato e non capivo tanta premura, ma appena misi dentro la testa capii che erano curiosi e volevano godersi l’effetto della sorpresa.
La vecchia pianta era tornata vicino alla finestra come l’aveva sempre voluta il signor Wang, ma ce n’era un’altra che troneggiava da quest’altra parte. Non era un’anonima pianta qualsiasi, era fiorita e la massa di fiori prevaleva esuberante su fusto e fogliame come una nuvola colorata. Il gusto era un po’ troppo cinese e mi parve quasi femmineo, ma l’effetto grandioso e quasi illuminante per l’ambiente.
Mi voltai sorridente, o meglio sghignazzante, verso l’ingegnere.
«L’ho avuta vinta alla fine!» Esclamai.
«Sì sì, ma guarda meglio.»
Insospettito dal tono divertito dell’ingegnere mi avvicinai a quella meraviglia e solo là cominciai a notare qualcosa di strano. Dovetti avvicinarmi proprio molto, toccare i fiori e sentire tra pollice e indice per avere la prova che non si trattava di una vera pianta fiorita.
Avevano preso i ritagli delle stoffe leggere avanzati dalla collezione Pierre Cardin e con quelli avevano realizzato fiori e foglie, dipingendo squisitamente le sfumature di ogni petalo coi delicati inchiostri tradizionali della Cina. Con quelle avevano rivestito una pianta morta ridandole una vita nuova ed esuberante.
«Il signor Wang dice che non occorre curarla tutti i giorni e spera che adesso lei sia soddisfatto, Mister Giudici.» Riferì Ginny. «E poi così nessuno perde la faccia.»

***

Eugenio Giudici è nato nel 1950 e vive a Milano. È laureato in architettura, ha lavorato per tredici anni in ambito pubblicitario come art e copy, direttore creativo e amministratore delegato. Successivamente è passato al mondo della moda e dell’abbigliamento nel settore marketing, produzione, direzione industriale in Italia, Cina e Germania. Infine ha deciso di chiudere con tutto per dedicarsi a quello che da sempre voleva fare: affrontare la sfida di raccontare e di scrivere. Con la raccolta di racconti Piccole storie è stato finalista al Premio Calvino nel 2012.

4 Risposte a “Il giardinere della Jin Tak”


  1. 1 matilde avenali Ott 9th, 2012 at 10:50 am

    Vero è che “le piante pensano…
    Il che riporta alla questione del credere o non credere e ad una celebre frase di Norberto Bobbio, secondo cui “la differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti”.
    Ed il pensare non è questione di ragioneria e neanche esito del “cogitare”, nè tantomeno del “sapere”…
    Quanto al “non perdere la faccia”, sembra proprio che chi non pensa la perda comunque… mentre chi ascolta può rispondere anche alla presunzione.

    Racconto bellissimo, per più motivi, letterari e non. Grazie Antonio.

  2. 2 Antonio Maddamma Ott 11th, 2012 at 6:31 pm

    Prego. I miei complimenti vanno all’autore…

  3. 3 gianna Ott 12th, 2012 at 11:33 pm

    Mi è molto simpatico questo giardiniere anche se cura le piante solo per il nostro piacere. Ho trovato questo racconto delizioso, e sebbene in questo momento sia molto stanca anche se non è tardissimo, sono solo le 23.30, sono riuscita a leggerlo d’un fiato e mi ha comunicato della
    serenità. Mi pare una grande cosa. Buonanotte a tutti.

  4. 4 giuseppe di mauro Ott 13th, 2012 at 6:40 pm

    …grazie Gianna!tu sei anche più simpatica del giardiniere…per darti la buonanotte ormai è tardi e allora… buona domenica!

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