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Intervista con Davide Sapienza

Pubblichiamo qui di seguito un’intervista a Davide Sapienza, in occasione della sua partecipazione, insieme al cantautore e polistrumentista Francesco Garolfi, alla rassegna Giardino Letterario di Tolentino, domenica 7 settembre, ore 21.30.
Verrà presentato lo spettacolo “La Stagione di Ognidove”, reading letteraria e musicale tratta dal libro “La Valle di Ognidove”.

Davide Sapienza
Davide Sapienza – Foto di Silvestro Paletti

Di Valeria Bellagamba

“La Stagione di Ognidove” sta arrivando nelle Marche. Come è nata questa tua partecipazione alla rassegna “Giardino Letterario” di Tolentino?

Da “Il suono del cammino” con Cristina (Donà) a “La stagione di Ognidove”, nata da subito con Francesco Garolfi, è accaduto che si spargesse la voce a proposito dell’idea suggestiva: in questo caso, poi, in un certo senso Francesco riesce a dare un collante musicale più legato al testo perché possiamo pescare in un repertorio infinito di “musica da wilderness” come la chiamo io, mentre con Cristina era più bello usare le sue splendide canzoni, per ovvie ragioni. Dunque un giorno mi è arrivato un invito via e-mail da Speranza Conti, e la cosa mi ha resto doppiamente felice, perché nelle Marche non ero ancora stato. In più, da Tolentino ero passato solo durante un lungo giro solitario in bicicletta otto anni fa. E ricordo una cittadina stupenda. Quindi… un Ognidove perfetto.

– Gli appuntamenti precedenti di questa performance letteraria e musicale hanno toccato prevalentemente località del Nord Italia: come si sono svolti questi incontri? Hai sviluppato un percorso unico per tutti o ci sono state delle variazioni a seconda dei luoghi visitati?

Le ragioni per cui gran parte degli appuntamenti si sono svolti nel nord Italia in parte mi sfuggono, in parte posso anche trovarle. È vero anche che son saltati alcuni appuntamenti organizzati da La Boscaglia (ma era solo la camminata, non la reading musicale), in Umbria, Toscana ed Emilia. Gli incontri sono stati tutti diversi tra loro. A volte si faceva la camminata e poi la reading, come al Parco di Paneveggio in Trentino in luglio. Altre volte solo la reading, come accadrà a Tolentino e sei giorni dopo a Torino, dove, annuncio per la prima volta, “La stagione di Ognidove” si concluderà. Il 7 settembre sarà un anno dall’uscita del libro (e anche de “I Diari di Rubha Hunish”) e il 12, a Torino, lo spettacolo arriva nella città della casa editrice. Dato che non credo al caso, ma alla sincronicità, e alle coincidenze significative, quando mi hanno fissato questa data – una nelle Marche, nell’anniversario del libro, l’altra in Piemonte, a “casa” del libro, beh, ho detto: la Stagione ha un inizio e una fine. E come tale, quello sarà l’ultimo. Stiamo però preparando una reading musicale sull’esplorazione ma… siamo ancora in fase embrionale. Si vedrà. Come si vedrà se torneremo con un tour Donà-Garolfi-Sapienza con una nuova reading nel 2009.


– Puoi darci qualche piccola anticipazione sullo spettacolo di Tolentino?

Lo spettacolo è quasi sempre diverso, e lo sarà anche a Tolentino. Per me è importante avere un approccio di immedesimazione con il luogo come è nel mio immaginario. Alla “prima” di Ognidove, nel paese dove vivo, avevo scelto una passeggiata in un luogo che – clamoroso ma vero – non avevo mai visto prima, a un chilometro da casa, una vallettina nascosta e quasi invisibile – partendo da quel concetto “La stagione di Ognidove” è stata presentata in luoghi che avessero sempre un forte “spiritus loci”, se così posso definirlo. E sono tutti stati appuntamenti straordinari, nessuno escluso. Pensa, nel Parco di Paneveggio, con la più grande foresta delle Alpi, leggere di Ishmael e del legno…

– Come hai conosciuto Francesco Garolfi e da dove è nata l’idea di collaborare insieme?

Ero ospite di Luca Crovi a “Tutti i colori del giallo” su Radio2 e prima di me registrava Garolfi assieme a Fabrizio Poggi, armonicista e autore di un libro sugli armonicisti blues. Ho sentito questi suoni straordinari e credevo fosse un cd: invece era lui. Gli ho fatto i complimenti e alla fine lui mi ha regalato un cd bellissimo, “The Blues I Feel”: al momento ero interdetto, un italiano che fa blues poteva essere a rischio “cartolina”, come dire. Invece l’ho ascoltato tre volte di seguito. Una roba impressionante. Ecco un’altra coincidenza sincronica: un mese dopo eravamo insieme a provare e alla fine l’ho coinvolto. Quando Cristina l’ha visto alla prima dell’Ognidove, la mattina dopo gli ha chiesto di andare in studio a registrare con lei l’album acustico “Piccola Faccia”: Peter Walsh, il produttore, ha detto che era il miglior chitarrista con il quale avesse mai lavorato. E hai presente con chi ha lavorato Walsh… (Peter Gabriel, Scott Walker, Simple Minds ndr) è un grande talento e a breve uscirà per la Faier Entertainment “1968: Odissea Nel Rock” di Francesco che rilegge classici rock del ’68 ma a modo suo: è un album sconvolgente per bellezza e autorità interpretativa nato da una mia idea, per ridare una sorta di reset alla percezione che si ha dei classici del rock: e lui ovviamente, da talento che è, ha saputo trovare la nuda anima della creazione in atto, sembra di sentire quasi l’attimo in cui le canzoni furono concepite. Da brividi.

– Musica e letteratura. Un binomio inscindibile del tuo percorso artistico. Possiamo chiederti un’opinione sulla scena musicale e letteraria italiana di oggi? Sappiamo che è una domanda molto complessa e che meriterebbe un lungo approfondimento… ma in breve: cosa pensi della musica e della letteratura in Italia oggi?

Non so davvero cosa dire. Il vero problema, che è un passo prima della qualità dei prodotti musicali e letterari, è l’individualismo che ci coglie: abbiamo confuso l’individuazione dell’individuo in noi, come parte di una cosa più grande, con l’individualismo, la corsa all’auto affermazione. Dunque non voglio giudicare, ma capire. Ci sono tanti che scrivono bene in Italia, come ci sono artisti davvero bravissimi che fanno dischi: ma il problema è un altro. È la rilevanza che la letteratura e la musica hanno davvero nella società: come dire, non sono protagoniste, ma gadget e non è un problema commerciale, bada bene. Al momento se non scrivi thriller o libri politici, gialli o libri storici, in pratica hai un mercato molto ristretto. Accetto questo stato di cose, perché così la società in cui vivo si orienta in quest’epoca. Tuttavia siamo in tanti a lavorare a livelli più sottili e nella musica prendo come esempio Cristina Donà, che ha sempre seguito l’individuazione di qualcosa di più grande e importante di se stessa. Noi artisti siamo dei veicoli, portiamo un messaggio che viene da lontano: viene dai milioni di uomini e donne che compongono il nostro dna e che desiderano essere espressi come archetipi. Quando dico la parola “io”, non la dico nel senso di “ego”: la dico nel senso di umile messaggero, dotato però della forza e della visione per esprimere queste cose più grandi, come cerco di fare non solo nei libri, ma negli articoli, nelle conferenze, nei progetti come questa Odissea Nel Rock.

– E riguardo alla scena internazionale, cosa puoi dirci? (Visto che sei autore, oltre che traduttore, sensibile e attento)

Vale la stessa risposta: ho difficoltà a vedere la musica come date di uscita e la letteratura anche… ad esempio, è un periodo che ho ripreso ad ascoltare i miei amatissimi Echo & The Bunnymen: album dei primi anni ottanta che ascoltati ora, da un giovane, sembrano le ultime novità della New Wave angloamericana: allora mi domando, dunque c’è qualcosa che circola nell’aria che è simile a ciò che fece nascere quella sensibilità musicale? Significa che per esprimersi oggi molti gruppi più giovani, formalmente non interessanti perché troppo vittime della sindrome dello specchio, hanno scelto però archetipi creati allora? È solo un esempio. In più io amo moltissimo il cinema e quest’anno dico che ci sono due film straordinari che ho visto: “Il cavaliere oscuro” di Christopher Nolan, capace di “usare” un fumetto per dire cose di una complessità e profondità incredibili, e “L’assassinio di Jesse James da parte del codardo Frank Howard”. Sono solo due esempi come la serie “Deadwood” della HBO. Ho visto “La vita agra” di Lizzani, del 1963, tratto dal libro di Bianciardi: avanti mezzo secolo allora, è attualissimo. Ho rivisto molto Kurosawa, inarrivabile genio, del quale ricorre il decennale della morte. Ho letto “Il migliore amico dell’orso” di Arto Paasilinna, straordinario libro come altri che ho letto quest’anno. Insomma, di cose ce ne sono, difficile riassumerle in una risposta. La cosa migliore è cercare dischi, libri e film che rispondano alla forza intrinseca creativa che sta in ognuno di noi, in tutti ma proprio tutti: tutte le opere che ti incitano a tirare fuori la tua creatività, beh, sono opere che a me piacciono.

– Da un anno circa, hai iniziato a collaborare con la rivista – free press – letteraria “Satisfiction” ideata da Gian Paolo Serino, giovane e stimato critico letterario. Vuoi raccontarci di questa tua collaborazione e dell’incontro con Serino?

Gian Paolo ha dieci anni meno di me e rivedo in lui tante cose che mi sono costate care: in primis, il suo amore assoluto, incondizionato, puro, profondo, verso l’arte. La sua intelligenza è fuori discussione, ma questo lo sanno tutti. È la sua sensibilità che mi colpisce, la capacità di percepire cose che in pochi percepiscono: SATISFICTION è un atto d’amore, una creatura che paragono al mio FIRE degli anni ’80, in senso ovviamente lato. Gian Paolo può, e deve, diventare uno scrittore e lasciar perdere la critica letteraria perché per quanto lui sia bravissimo, troppi anni di “critica” ammazzano tanti recettori creativi. Quando ha letto “La Valle di Ognidove” si è talmente entusiasmato che prima di scrivere la recensione mi ha telefonato e da lì … si è sviluppata questa affinità: ci piace definirci “fratelli di carta”. Gian Paolo è imprevedibile e a volte burbero, ma questa è la bellezza di questa persona: e di tutte le cose che fa nel suo lavoro, dove non c’è mai una riga di mestiere né di marchette. Non è poco.

– Pensi che progetti come quello di Satisficiton possano dare una “scossa” al mondo letterario italiano?

Sì, credo di sì: ma a capirlo deve essere per primo l’editore che ha preso in mano Satisfiction, che per ora non so quali progetti abbia. SATISFICTION è per definizione come il mercurio, non lo puoi maneggiare, puoi solo metterlo in circolo, farlo entrare in un termometro immaginario per misurare la febbre dell’editoria nazionale. Non a caso molte firme illustri collaborano gratuitamente – ricordo che Serino lo fa non solo gratuitamente, ma mettendoci di suo – perché qui sanno di avere la possibilità di usare il termometro liberamente… E comunque vada, è sempre un buon giorno per morire, come dicevano i guerrieri pellerossa: ma si deve morire in battaglia, non seduti in poltrona a trastullarsi il cervello e a raccontarsela tra simili, da intellettuale a intellettuale: cosa di cui gli intellettuali hanno tremendo terrore, perché vivono in una realtà distante, tutta loro.

– Cosa nei pensi dei festival letterari che si stanno moltiplicando un po’ in tutta Italia? Si tratta di vere occasioni di crescita e scambio culturale oppure delle semplici e festaiole vetrine promozionali?

Devo essere sincero: li ammiro, li rispetto, ma non riesco a vederli come momento così fondamentale per uno scrittore: quando ci sono troppe note in una canzone, ti perdi la bellezza e la leggerezza impalpabile della melodia. Se in un giorno vai ad ascoltare dieci autori, e ci sono cento incontri… ecco. Senza criticare, dico però che proprio come le presentazioni in libreria, per il tipo di cose che faccio preferisco scegliere situazioni e occasioni che non siano da fiera, come il Salone di Torino: che con tutto il rispetto, a partire dall’acustica dei padiglioni, svilisce il mio lavoro.

– Il tuo rapporto con la poesia?

Eterno. Scrivo da quando sono bambino, scrivo moltissime poesie. La poesia che molti hanno amato ne “La valle di Ognidove”, pensa, è del 1995… Compongo delle raccolte, e ne ho ormai molte, che restano inedite. Le scrivo per me e poi vedremo. Un libro di poesie di sicuro voglio farlo. Due erano uscite in un’antologia di poeti italiani del ‘900 curata da Piero Gelli, “L’Amore. L’amicizia” per BaldiniCastoldiDalai nel 2004. Un grande onore essere scelti da Gelli e messo accanto a Pavese e agli altri… In definitiva, io sono più un poeta che un narratore: poiché mi viene spontaneo dare peso a ogni parola, mentre per narrare devo fare lo sforzo di allungare il passo delle frasi, cosa che mi diverte molto, perché mi vien facile scrivere. Ma i miei due libri di letteratura di questi anni credo parlino da soli.

– “Viaggiare da fermo” è un espressione che ricorre spesso nel tuo libro, “La Valle di Ognidove”. Quanto è importante “viaggiare da fermi” e quindi espandere la nostra immaginazione?

Quel concetto l’ho mutuato da una persona speciale e importante per me, che è la mia “maestra” di meditazione, yoga e altre cose un pò particolari. William Blake, il grande poeta inglese, non lasciò mai casa sua, eppure vide mondi e immaginò futuri e passati e presenti. Viaggiare da fermi vuol dire semplicemente capire che tra il mondo del “qui e ora” – la realtà come noi la percepiamo fisicamente – e il mondo sottile – quello che persiste sempre, quello invisibile e impalpabile, quello che non ha un tempo, una cronologia e coordinate geografiche – c’è una relazione continua che ha come strumento di comunicazione il sogno, l’inconscio, l’unus mundus per dirla alla Jung. Ed è lì in quello spazio che si realizzano le sincronicità della nostra esistenza, per cui so che se mi hanno invitato a Tolentino è perché qualcosa deve pur significare, al di là del qui e ora – cioè lo spettacolo. Dunque, io da qui, da alcuni mesi, quando penso a domenica e alla data di Tolentino, sto viaggiando da fermo: quando verrò lì, lo spostamento fisico sarà quasi irrilevante, quello che questo viaggio doveva darmi, me lo sta già dando e poi continuerà a darmelo. Un altro esempio: ogni volta che parto per le terre lontane, nei giorni precedenti ho quasi voglia di non andare, perché so che è lo stesso: che comunque sia quel mondo sottile che ha lavorato, ha già elaborato “il viaggio”. La parte fisica è solo l’ultima parte – spesso stupenda, ovvio, ma pur sempre del qui e ora che è effimero. Il viaggio è ciò che immagini e ciò che lascerai traspirare con te dai sogni e dal profondo.

– Gli Italiani sembrano aver perso fiducia nel futuro, un dato incontrovertibile di questo fatto è rappresentato dal calo demografico in atto nel nostro Paese. Come si recupera la fiducia nel futuro e da dove si acquisisce la capacità visionaria? Può un momento di crisi, sotto tutti i fronti, portare ad un miglioramento e soprattutto ad un rinnovamento della nostra società?

Vorrei dire cose provocatorie. Ad esempio, proviamo a immaginare se di colpo prendessimo tutti gli abitanti di Roma e li trasferissimo, che ne so, ad Aosta e tutti quelli di Aosta a Taranto e quelli di Taranto e Genova e quelli di Genova a Milano e quelli di Milano e Napoli e quelli di Napoli a Bergamo e quelli di Bergamo ad Ancona. Un esperimento antropologico: se ci liberassimo anche delle cose “belle” classicamente, per un pò: se mettessimo dei teloni sui grandi monumenti per alcuni anni, pensa che roba, bisognerebbe tornare a immaginare: spesso è vero, capovolgendo la frase di Oscar Wilde, che ogni cosa bella uccide colui che la ama… nel senso che in Italia come ci si pone di fronte alla Bellezza classica? È molto difficile e infatti, pare che ci sia una sfrenata corsa alla bruttezza, l’architettura sta tornando agli anni sessanta orribili – grattacieli, cemento vivo, e così via. Poi ci sono quelle terre incredibili, le Alpi e gli Appennini, che però sono chiuse dai nostri mari e che paiono essere molto piccole nel nostro immaginario. Il rinnovamento e la verità stanno dentro di noi, nel profondo: sarebbe sufficiente non votare più nessuno per un turno elettorale. Andare alle urne, ma annullare le schede. Servono scosse di questo genere: dimostrative ma di sostanza. Le forze rinnovatrici della politica non esistono. Dunque, bisogna ricreare la politica altrove. È semplice.

– Ne “La Valle di Ognidove” citi una frase di Jack London: “La vita mente per poter sopravvivere”. Frase di una limpidità disarmante. Quanto è necessario mentire?

Quella frase è parte di un discorso complesso che London fa in “John Barleycorn” e prima ancora nell’incredibile capolavoro chiamato “Martin Eden” – uscito nel 1909, ma finito di scrivere nel 1908, un secolo fa. La menzogna a cui ci riferiamo – io e lui – è ciò che ti serve dirti in alcuni momenti per non decidere di lasciare il qui e ora, a favore dell’inabissamento sublime nel Profondo del grande inconscio universale. Pensa a uno stambecco: noi lo chiamiamo semplicemente “stambecco” e lui non sa che quando muore poi comunque rinasce e sarà sempre “stambecco” – lui è senza Ego, è solo Io, è appartenenza a un’unica ininterrotta stagione: a lui non serve mentire. Noi invece abbiamo un nome e quindi un ego. E pian piano siamo usciti dal legame con la Madre che ci genera tutti: non la riconosciamo neppure più perché a furia di sfregiarla, violentarla, sporcarla e mancarle di rispetto, come facciamo mentre teniamo accese le luci di casa a pensare che la corrente si fa con l’acqua, che nelle montagne l’acqua è irregimentata (e, peggio ancora, monopolizzata), che segue un percorso fatto di una tecnologia bellissima ma anche di processi inquinanti che dovremmo ridurre al minimo indispensabile? Nessuno di noi ne è esente. Ma sarebbe già importante pensarci, ogni tanto, a queste cose, giusto per lasciare dei graffiti emozionali e cerebrali nel nostro dna che passerà alle generazioni future: che, speriamo, tornino a riconoscere il volto della Madre. Ecco la menzogna quotidiana. Non è cattiva, è solo funzionale.

– Il 18 giugno si è spento Mario Rigoni Stern, un maestro da te più volte citato nei tuoi scritti. Che ricordi o suggestioni ti ha lasciato?

Un uomo vero. Un uomo importante che ha lasciato un segno e che è più vivo che mai, credimi: in migliaia di italiani non solo anziani e legati ai terribili ricordi di sofferenza della guerra mondiale, ma anche in tanti che sanno che lui era un guardiano discreto ma severo della Madre. E alla Madre è tornato e me lo immagino nei boschi, con i suoi sci. Lo capisco. È così che vorrei andarmene anch’io da questo viaggetto in forma umana, un giorno. Nella neve.

– Ultima domanda: un libro e un disco che ci consigli oggi.

Aggiungo un film, prima: “Dersu Uzala” di Akira Kurosawa. Si trova in dvd. Poesia allo stato puro. E meraviglioso racconto di uomini e natura selvaggia. Lì c’è la storia, la musica, la fotografia, il mistero. “Piccola Faccia” di Cristina Donà, perdonate se son di parte (è sua moglie ndr): ma è poesia allo stato puro, il cd che ho più ascoltato quest’anno tra le novità. Meraviglioso. Libro: “Il vagabondo delle stelle” di Jack London. Perché lì dentro, c’è tanto di me. E “Martin Eden”, ma aspettate la mia traduzione d’autore, che esce l’anno prossimo però: per la prima volta con le note ampie che danno una lettura rinnovata a questo grande libro di ogni epoca.

“La Stagione di Ognidove”: domenica 7 settembre 2008, Giardino Biblioteca Palazzo Fidi, Tolentino.

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