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Il proverbiale Podestà di Senigallia

Sigismondo Malatesta - Ritratto (particolare)

La grande maggioranza dei Senigalliesi (noi inclusi fino a qualche tempo fa) ignora che il Podestà di Senigallia è stato “portato per lingua” per diversi secoli. Ne fanno fede alcuni versi di Lorenzo Lippi (1606-1665), pittore e poeta fiorentino.

Egli compose un poema ,”Il Malmantile Racquistato”, come dire una rozza tovaglia riconquistata. L’opera, articolata in dodici canti, è una parodia comica della sempre osannata “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, con molte allusioni a personaggi contemporanei e continui riferimenti alla vita, alle credenze, ai modi di dire popolari, sempre in chiave arguta e leggera. Nel decimo canto del Malmantile si narra che Paride, riuscito con uno stratagemma ad attirare nell’abitato un lupo, ordina ai suoi servi di catturarlo: il suo comando però non viene rispettato. Allora Paride “Bisogna, dice, con questa canaglia far come il Podestà di Sinigaglia”. Il poeta dà come ovvio ad intendersi il detto, facendoci capire che esso era nel parlar comune e quindi molto noto. Il significato dei due versi è evidente: comandare e, poiché nessuno esegue gli ordini, provvedere direttamente e in prima persona a realizzare quanto si è richiesto. Quale fosse il Podestà in questione, quale e quanto anteriore a questi versi il contesto nel quale si svolsero i fatti che hanno dato origine al detto in questione sono le inevitabili domande che ci siamo subito posti.

Con non poca sorpresa abbiamo rilevato che diversi storici hanno cercato una risposta a questi quesiti, fornendo spiegazioni che non concordano molto tra loro. Non ci sembra pertinente aggiudicare la paternità dei fatti al famoso capitano di ventura Andrea Fortebracci da Montone (Braccio da Montone). Secondo una fonte, peraltro isolata, ad un pavido che lo incitava ad impartire ordini per fare sospendere la battaglia essendo quello un giorno infausto, egli si dice rispondesse: “Ma tu vuoi farmi diventare Signore di Senigallia!”. La citazione prosegue asserendo che tale espressione sarebbe in seguito entrata nell’uso a significare che a chi comanda nessuno obbedisce, tranne se stesso. Ci sembra che quest’ultima frase sia una riflessione generica di tipo filosofeggiante e che il raccontino che la precede sia poco circostanziato da eventi ben precisi, senza la nozione dei quali l’aneddoto perde di significatività.

Le altre spiegazioni non sono sovrapponibili, ma presentano alcuni punti in comune. Al centro del racconto, oltre a Senigallia e ai Senigalliesi, figurano in tutti Sigismondo Malatesta, i Piccolomini, il Papa. Sigismondo, per investitura concessa dal Papa Eugenio IV, aveva ottenuto il feudo di Senigallia nel 1455 ed aveva promosso una intensa politica di ripopolamento, di ricostruzione (sia come nucleo urbano sia come fortificazioni) e di potenziamento dei traffici e per mare e per terra: per la città fu una vera rinascita dopo alterni periodi, che talora sembrarono (ce lo certifica Dante) presagirne la fine. Nel 1459 Sigismondo, alla ricerca di finanziamenti, ottenne un grosso prestito dal Papa: in pegno diede Senigallia e il suo contado che gli sarebbero stati restituiti a debito estinto. Il Papa era Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, insigne umanista e mecenate nonché grande nepotista. Governatore della città fu nominato Petruccio Piccolomini. Il governatore e il podestà, quando seppero che Sigismondo era tornato con le sue truppe dall’Abruzzo per riconquistare Senigallia, cercarono di scappare, preferendo “esser uccello di campagna che di gabbia”. I cittadini, indispettiti, minacciarono di buttarli dalla finestra se avessero ancora parlato di fuga e li disprezzarono tanto che, quando essi impartivano degli ordini, nessuno li eseguiva. Di qui il proverbio.

Un altro gruppo di storici dà una versione sostanzialmente simile, pur collocando gli eventi qualche anno dopo, nel 1462. Sigismondo si è di nuovo impossessato di Senigallia. Ben presto, però, si avvicinano alla città le truppe di Federico di Montefeltro, alle quali stanno per congiungersi quelle pontificie guidate da Napoleone Orsini: lo scopo comune è di sconfiggere Sigismondo e recuperare Senigallia alla Chiesa. Sigismondo teme di rimanere intrappolato in Senigallia e tenta di trasferirsi con le sue truppe a Fano, ma presso il Cesano subisce una grave sconfitta. Secondo uno storico del ‘700 per il recupero di Senigallia Pio II provò sommo piacere, perché gli sembrava che senza questa città poco o nulla rimanesse allo Stato della Chiesa. Senigallia fu data dal Papa in feudo a suo nipote Antonio Piccolomini (all’altro nipote, Giacomo, il Papa assegnò Montemarciano). I Senigalliesi, forse perché nutrivano un buon ricordo di Sigismondo Malatesta che tanto aveva fatto per la rinascita della città, ma soprattutto irritati perché Antonio Piccolomini e il suo podestà non facevano nulla né per Senigallia né per i suoi cittadini, assunsero un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle nuove autorità, ignorandone ordini e disposizioni. La situazione diede origine al detto che fu in uso per secoli: “Fare come il podestà di Senigallia che comanda e fa da sé”.

Ci sorprende che nessuno degli storici senigalliesi abbia su questo argomento ricordato quanto è scritto nella pur visitatissima “Cronaca di Senogaglia” di Gianfrancesco Ferrari, vissuto nel XVII secolo. Nel testo è detto che molte volte il Rettore della città, inviato dalla Chiesa, non otteneva obbedienza, ancorché comandasse minacciando gravissime punizioni. E’ in quel tempo (il 1281, l’autore precisa) che “… se levò un proverbio, che il Podestà di Senogaglia Comanda et faceva da se stesso, come ancora se dice a nostri tempi…”. Questo riferimento del Ferrari al podestà senigalliese, anche se irrilevante dal punto di vista storico, merita di essere ricordato. Esso sposta dal XV al XIII secolo l’origine dell’ameno proverbio, che quindi circolerebbe sul territorio nazionale da ben 725 anni.

Flavio e Gabriela Solazzi

Sigismondo Malatesta - Ritratto (presente nella Sala Consigliare del Comune di Senigallia)

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